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RAZZISMO E XENOFOBIA, UNA DISTINZIONE UTILE

L'atteggiamento verso Salvini e verso il pensionato che dice che 
non ne può più di tutti questi immigrati non può essere lo 
stesso. I razzisti vanno combattuti, gli xenofobi persuasi.

Sul web, nelle strade, nei bar: i discorsi razzisti – e conseguentemente gli atteggiamenti dello stesso segno – sono ormai dilaganti. La Sardegna, nonostante qualcuno cerchi di idealizzare un immaginario e atavico spirito di accoglienza innato, non è esente da questo processo infame che vede persone, magari buonissime nella vita di ogni giorno, restare indifferenti o addirittura gioire di fronte alla disperazione dei migranti o all’ennesima tragedia del mare.

Come tutti i fenomeni umani, anche questo è complesso e sfaccettato. Potrebbe essere molto utile affrontare la questione attraverso la differenziazione delle parole per indicare atteggiamenti diversi.

La proposta, che ha un valore politico intrinseco e non è una mera questione di precisione semantica, è la seguente: distinguere tra razzismo e xenofobia. Il razzismo è un atteggiamento fondato sulla credenza della divisione dell’umanità in razze, fatto smentito definitivamente da decenni dalla scienza sia nell’ambito dell’antropologia medica che in quello dell’antropologia culturale. Ne consegue una visione discriminatoria e coscientemente emarginazzante dei gruppi etnici differenti, generalmente finalizzata a scopi politici. La xenofobia, potrebbe essere allora intesa, con riferimento all’etimologia greca della parola, come la paura dello straniero. Paura, appunto, dunque un sentimento irrazionale, non cosciente e non finalizzato ad alcunché. Paura che spesso è dettata da ignoranza, anche senza far riferimento a chissà quali livelli di analfabetismo, nel senso che un laureato con quattro master può essere xenofobo perché non ha la minima conoscenza dei fondamenti dell’antropologia culturale o gli mancano nozioni elementari di storia e geografia.

Qual è il valore politico di questa precisazione? Si tratta di distinguere due obiettivi nella lotta contro il razzismo/xenofobia imperante. Da un lato i razzisti, gli imprenditori politici della paura – Salvini, Fusaro, eccetera – e dall’altra le persone normali, xenofobe perché condizionate dai razzisti, perché l’essere umano innatamente è diffidente verso lo straniero e per ignoranza di discipline che favoriscono la convivenza e affievoliscono le naturali tensioni interculturali. Contro i primi è lecito qualsiasi mezzo, sempre all’interno di una visione tattica intelligente; contro i secondi, l’arma è la persuasione, la gentilezza e la pazienza, ma soprattutto una programmazione culturale e scolastica finalizzata a creare dimestichezza con lo straniero, non paura, perché la paura finisce sempre per diventare odio.

dp

Pigliaru traballa, soffiamo tutti insieme

Mettere coscientemente da parte le differenze e costruire un momento
pubblico di opposizione sociale alla giunta Pigliaru: questo il 
compito dei movimenti nell'ultimo anno e mezzo di governo regionale
del centrosinistra. I partiti indipendentisti pensino alle elezioni,
i movimenti pensino a organizzare l'opposizione sociale.

Il presidente Francesco Pigliaru è in un momento di grave difficoltà politica. Anche se le veline regionali non lo danno a vedere, la situazione nel confronto con il governo ha ufficializzato la posizione della giunta dei professori come peggior governo della storia autonomista. Tre le questioni in campo e il fallimento c’è su tutti i fronti. Si parlava di agenzia sarda delle entrate, di accantonamenti – cioè la somma dell’introito regionale che deve essere destinata al ripianamento del debito pubblico italiano – e di servitù militari e Gentiloni ha fatto lo gnorri su tutti i fronti: «Ci serve tempo per dare una risposta». Unica rassicurazione l’appoggio alla Sardegna per il riconoscimento in Europa della condizione di insularità: insomma un impegno a costo zero, tutto sommato inutile e che perpetua l’immagine di una Sardegna che per andare avanti ha bisogno di assistenza e aiuti da altre realtà, che in cambio possono utilizzarla per farci quello che vogliono. Patetiche le reazioni del Pd, che cerca di salvare sia la facciata autonomista sia il retrobottega sottomesso agli interessi romani. Ciò che emerge chiaramente da questi quattro anni di governo della coalizione Pd-Pds-altrepiccoleforzesovraniste, egemonizzata dal blocco giuridico-economico dei professori dell’Università di Cagliari, è la sensazione di un fallimento totale. La Sardegna è una regione in crisi, checché vogliano farci credere le inutili ventate di ottimismo sponsorizzate da certi mezzi di informazione, e la sua classe dirigente è assolutamente incapace non tanto di sbattere i pugni sul tavolo, quanto solo di pensare di poterlo fare. Il Pd, che in Sardegna non è altro che l’aggregazione della rete di potere di singoli personaggi politici, è in questa fase il principale nemico della Sardegna e delle sue aspirazioni ad un futuro migliore. Probabilmente il centrosinistra italiano verrà spazzato via alle elezioni del 2019, che – comunque vadano – porteranno al potere una forza politica minoritaria e incapace di rappresentare gli interessi dei sardi, grazie a una legge elettorale indegna e antidemocratica, ma gli resta ancora un anno e mezzo di governo, cioè un tempo sufficiente a fare ancora molti danni. Perché oltre a quelle questioni ce n’è altre: c’è il pasticcio della sanità, c’è il declino inesorabile dei due poli universitari esclusi dai finanziamenti ministeriali, c’è la questione delle scorie nucleari, c’è la continuità territoriale e mille altre ancora.

Le forze indipendentiste si confrontano da mesi per trovare un accordo che gli permetta di partecipare unite alle elezioni e preparandole bene potrebbe essere il momento del boom. Sono dinamiche di partiti, ma tutta quella parte della politica che partito non è, che alle elezioni non parteciperà direttamente e che tuttavia si impegna quotidianamente nelle lotte per un futuro migliore, cosa deve fare? Siamo fortemente convinti che la piazza debba fare la piazza.

Quello che manca a Pigliaru è il fiato sul collo di un popolo attento che, giunti a questo punto, non può fare altro che mettere chiaramente in campo la totale assenza di legittimazione, tra i sardi, di questa giunta. Le decine di vertenze di questa terra dovrebbero unirsi e convocare un momento pubblico di opposizione sociale alla giunta. Giustamente ognuno ha le sue battaglie particolari, ma esse rientrano in un quadro politico generale ed in quel quadro non bisogna dimenticarsi di agire, tenendo presente che l’unione fa la forza. Tutto questo, sembrerà assurdo il paragone ma è così, può accadere solo ispirandosi ad un principio di mobilitazione sul modello delle chiese protestanti nordamericane nel ‘700, collaborazione e coordinamento aldilà delle denominazioni particolari di ogni gruppo, trovando l’accordo su pochi punti fondamentali e scelti appositamente per limitare il più possibile gli attriti. Fare la piazza si diceva, quindi non serve preparare nel dettaglio le soluzioni politiche, i consiglieri regionali e gli assessori sono pagati per quello. Bisogna protestare, mettere in chiaro che il modello attuale è dannoso, e costringere quegli undici a mettersi d’accordo e costruire una proposta intelligente per la Sardegna e per il nostro futuro.

Luciano Marroccu e l’invenzione della tradizione.

L'attacco all'indipendentismo sardo di Marroccu in realtà non è 
altro che una manifestazione di nazionalismo italiano

Sulla Nuova Sardegna del 22 ottobre è uscito un articolo di storia sarda che è molto interessante analizzare. Reca la firma del contemporaneista, professore ordinario dell’Università di Cagliari e già assessore alla cultura di centrosinistra della Provincia di Cagliari, Luciano Marroccu.

Il professore cagliaritano prende spunto dai recenti fatti catalani per assestare un bell’attacco all’indipendentismo sardo. Attacco a tutto tondo, sbrigativo in realtà, dal momento che non tiene conto del fatto che il fenomeno etnoregionalista in Sardegna ha un livello di dibattito interno abbastanza avanzato e che dunque attaccare l’uno significa talvolta sposare le opinioni di un altro. Marroccu parte da un presupposto superato da tempo, forse ha scarsa dimestichezza con le ultime pubblicazioni in ambito politologico sul tema dell’etnoregionalismo, forse, in quanto storico, vede una rilevanza della storia nelle rivendicazioni nazionaliste più grande di quanto in realtà sia. Egli in effetti riconosce che la giustificazione storica del nazionalismo non è sempre presente nei movimenti nazionalisti, ma poi, quando passa alla parte più polposa del suo articolo, procede ad un tentativo di smontaggio dell’indipendentismo sardo fondato solo su basi storiografiche, o supposte tali. «Può infatti capitare che esplorando la propria storia si facciano scoperte imbarazzanti. Che la nazione in questione non ha radici millenarie, come forse si immaginava, e che la sua storia è alla fine troppo complessa e non sono tutto trasparenti i suoi significati simbolici». Così dice Marroccu, ma ad essere schietti il professore sta scoprendo l’acqua calda. La semplificazione e la mitizzazione del passato, o invenzione della tradizione secondo la terminologia di Hobsbawm, sono un fenomeno comune a ogni forma di nazionalismo politico. Può essere dannoso, ma non lo è necessariamente, dipende per esempio dai fini che un movimento nazionalista si pone. Dannosa è, senz’ombra di dubbio, l’invenzione dell’italianità di Istria e Dalmazia, dal momento che il fine è quello di foraggiare il revanscismo slavofobo e che la storia contemporanea italiana porta parecchi esempi dei danni che questo falso storico ha comportato. Molto meno dannoso è un processo di mitizzazione di figure come Eleonora d’Arborea o Leonardo Alagon, perché il fine politico di chi porta avanti queste semplificazioni storiche è quello di creare un sentimento di unità popolare, non di invocare il massacro degli Aragonesi o l’espulsione dei catalani da Alghero. E si badi bene che si tratta di fenomeni politici, o della cultura popolare. Non si può pretendere che un intero popolo abbia un livello accademico di conoscenza della storia, ma si può trovare un buon compromesso grazie a una buona divulgazione scientifica.

Ciò che sorprende, e in parte irrita, è che Marroccu dedichi attenzione a smontare delle rielaborazioni mitiche delle quali non cita né gli autori-fruitori, cioè quei soggetti che le costruiscono e se ne avvantaggiano, e tutto sommato inoffensive. Ogni nazione si è formata attraverso fenomeni di questo tipo. Dire: «Eleonora d’Arborea, nata in Catalogna, si battè per i diritti e i privilegi della sua casata, in un quadro culturale e istituzionale in cui viene difficile ambientare una lotta a sfondo nazionale» ha senso in un quadro accademico, un po’ meno in un articolo giornalistico rivolto a un pubblico generalista. Questo perché al pubblico generalista mancano i fondamenti di conoscenza dela storia medievale europea, che gli permetterebbero di inquadrare questa frase, di per sé non falsa, nel giusto contesto. Detta così sembra che sia un caso particolare, che invece quei soggetti nazionali giunti al completamento del processo di formazione statuale possano vantare nella loro storia sovrani che effettivamente svolsero il ruolo di fondatori della nazione. Nel Medioevo, epoca in cui germogliano i primi semi dei legami etnici che daranno poi origine ai gruppi nazionali, nessun sovrano svolgeva lotte a sfondo nazionale, tutti i sovrani agivano per scopi dinastici. I sovrani della casata Bas Serra si inseriscono pienamente in questo contesto. E però bisogna stare attenti, perché la storia non è una foto in bianco e nero, ma una foto a colori dai bordi sfumati e nella politica di Eleonora gli elementi proto-nazionalistici non mancano, soprattutto nella propaganda di guerra e nelle scelte linguistiche. La questione è molto più complessa rispetto a come la presenta Marroccu, anche senza entrare nel merito di quelli che erano i pensieri di Eleonora d’Arborea o dei soldati semplici che furono massacrati dagli aragonesi nella piana di Sanluri, senza chiederci, cioè, se essi avevano in mente almeno un abbozzo del concetto di nazione sarda. Il fatto che conta è la reinterpretazione dei fatti storici, e bisogna distinguere almeno due casi: quello in cui il gruppo etnico ha avuto successo sia nel processo di state building, e quello in cui ha fallito. Se la retorica della reconquista ha avuto successo è perché la Castiglia è riuscita nel processo di formazione dello Stato; in Sardegna questo non è accaduto perché 1409 fu uno spartiacque, che non interruppe – ma certo rallentò – il processo di costruzione nazionale, ma bloccò quelo di creazione dello stato. Ma sullo sfondo la situazione resta la stessa: fenomeni storico-politici di natura medievale, che perdono di senso fuori da quel contesto, vengono reinterpretati nei secoli successivi allo scopo di favorire il processo di costruzione nazionale e statuale. Marroccu se la prende col caso sardo, ma si sognerebbe mai di pubblicare un editoriale in cui scrive che la creazione dell’unità politica della penisola iberica fu solo un processo di scontro fra diverse regioni/regni, dal quale emerse un centro vincitore, cioè la Castiglia con la sua capitale inventata per essere il centro geometrico della penisola, Madrid? Perché d’altra parte spesso la storia è solo uno dei mille modi possibili in cui sarebbe potuta andare: verso la metà del 1600, contemporaneamente, Catalogna e Portogallo, unite sotto la corona asburgica di Filippo IV, si ribellarono. I portoghesi riuscirono, e oggi sono uno stato del quale nessuno si sogna di mettere in dubbio l’indipendenza, i catalani no. Il dubbio che viene è che Marroccu, ma non è solo, sia vittima di un tipico caso di etnocentrismo per cui ciò che avviene nel proprio sistema culturale di riferimento, in questo caso l’Italia, sia un fatto naturale, mentre quello che avviene al di fuori è una costruzione socio-antropologica da smontare.

Non sarebbe un problema se la cultura popolare sarda e la divulgazione storica nelle scuole o sui media fossero infestate da ben più gravi narrazioni tossiche. Insomma, quanto è sciocco prendersela con eventuali mitizzazioni della figura di Eleonora d’Arborea, quando a scuola ti insegnano che l’Unità d’Italia era già presente in nuce nella storia dell’Impero Romano, che Dante è stato un precursore del Risorgimento o che la Grande Guerra fu la quarta guerra d’indipendenza italiana, il culmine del processo risorgimentale? Queste sono mistificazioni storiche ben radicate persino in ambito accademico, oltre che onnipresenti nella divulgazione, e hanno uno scopo ben preciso, cioè la costruzione – che sì, nel caso italiano è ancora incompleta – del concetto di nazione italiana. E così, mentre Marroccu smonta quelle che per lui sono le basi storiografiche dell’indipendentismo sardo – il che è una sua supposizione però, dato che non ci dice quali sarebbero i movimenti e gli intellettuali indipendentisti che fondano la propria opinione su ragioni storiche e non tanto su un’analisi della condizione presente recente dell’isola – poi presenta come fatto naturale, e non come parallela reinvenzione del passato, il patriottismo costituzionale italiano: «Riconoscere la natura per così dire artificiale delle ideologie nazionali, prima di tutto di quella nell’orbita della quale siamo cresciuti, conoscerne la storia con le sue complicazioni e i suoi passi falsi, rappresenta non solo un salutare momento di autocoscienza ma anche un antidoto contro l’intolleranza. Un modo inoltre per ricordarci che ciò che ci rende comunità nazionale sono certo gli inni e le bandiere ma ancora di più le leggi. E che sono le leggi, in primis quella fondamentale, la Costituzione, che danno un senso e una direzione al nostro stare insieme». In queste poche frasi Marroccu esprime una lunga serie di concetti contestabili. Intanto raffigura il mondo come vorrebbe che fosse, ma non come è. Perché il sentimento di appartenenza nazionale non è mai qualcosa di completamente razionale, uno si sente italiano o sardo – o italiano e sardo – ma non può spiegare compiutamente il perché. Ugualmente superficiale è l’equazione ‘nazionalismo = intolleranza’; i movimenti etnoregionalisti europei (ossia quelli facenti riferimento a nazioni senza stato), tolte pochissime eccezioni come il Vlaams Blok – partito nazionalista fiammingo di estrema destra – e a fasi alterne la Lega Nord – non perché non sia sempre stata razzista, ma perché non sempre è stata etnoregionalista – sono stati tutti partiti moderati o di sinistra – con un processo generale di spostamento da sinistra al centro. Infine l’ultima frase fa riferimento a una forma di invenzione della tradizione che sta alla base del patriottismo italiano di sinistra, la retorica della costituzione più bella del mondo. Tralasciando il fatto che è impossibile organizzare un concorso di bellezza per le costituzioni, quella italiana nasce da un compromesso fra le forze antifasciste ed è il frutto della contrattazione politica, non l’espressione dello spirito nazionale italiano, ammesso che ne esista uno. E tale contrattazione è stata spesso al ribasso, senza considerare che il fondamento costituzionale stesso, cioè l’unità antifascista, è stato ben presto tradito dalle stesse forze politiche che gli avevano dato origine. Insomma, qual è la differenza fra chi esalta supposti afflati nazionalistici nella politica del giudicato di Arborea e chi dice che la costituzione italiana è il fulcro del sentimento nazionale? Adottando lo stesso metodo di Marroccu possiamo dire che la costituzione è un atto politico, e come tutti gli atti politici è il frutto di una negoziazione fra varie componenti dell’unità antifascista e che tutta la retorica successiva, non è altro, appunto, che retorica che mistifica la verità storica allo scopo di costruire un sentimento di appartenenza più forte.

cfr

LE GIORNATE STORICHE PER LA CATALOGNA

[Riceviamo e pubblichiamo volentieri il contributo di un giovane oristanese a Barcellona]

Tutti abbiamo visto le violenze della polizia nazionale in occasione del referendum del primo ottobre, nel quale i catalani erano chiamati ad esprimere la loro opinione sull’indipendenza della propria regione. Erano diversi anni che in Europa non si vedeva questa crudeltà esercitata delle forze dell’ordine, probabilmente le immagini del G8 di Genova sono comparabili a quanto visto in questi giorni in Catalogna. Volti sanguinanti di giovani e anziani scorrono nei video e nelle foto dando l’impressione di un intervento feroce della polizia nei collegi elettorali. Si parla di oltre ottocento feriti, tra cui alcuni gravi, e un morto di infarto a Lleida, una città vicino a Barcellona, durante lo sgombero di un seggio. Un bilancio tremendo e ingiustificato data la repressione sicuramente non proporzionale alla “minaccia” rappresentata da diversi milioni di elettori chiamati alle urne dal Governo catalano per dire Sì o No al definitivo distacco dalla Spagna.

Per comprendere come mai il referendum rappresentasse una minaccia per le forze di polizia nazionali incaricate di impedire il suo svolgimento è necessario fare un passo indietro. La storia della Catalogna è molto antica, generalmente si fa riferimento al suo regno che nel tardo medioevo si unì al più noto Regno Aragonese il quale, dopo una serie di conflitti per la successione al trono, venne unificato al Regno di Castiglia formando così i confini della Spagna come li conosciamo. In anni più recenti, si possono ricordare le varie repressioni del dittatore Francisco Franco contro la cultura catalana: a cominciare dalla lingua, qualsiasi espressione regionalista che aveva mantenuto un valore prima della dittatura veniva annullata. Alla conquista della democrazia, la Regione autonoma della Catalogna è parte della monarchia costituzionale spagnola istituita formalmente dalla Costituzione del 1978, la stessa che al suo secondo articolo sancisce l’indivisibilità dello Stato.

Un indipendentismo silente fino ai primi anni Duemila non aveva una effettiva rappresentazione politica a livello locale ed ancor meno a livello centrale. Tuttavia già all’inizio degli anni Novanta, con la XXV olimpiade tenutasi a Barcellona, la Catalogna rappresentava una realtà economica che rivendicava delle origini culturali differenti rispetto al resto della Spagna. Nel 2006 questa rivendicazione sfocia in un accordo col governo centrale che si concreta nello Statuto dell’autonomia in cui si parla espressamente di nazione catalana e di autogoverno. In sostanza si pone in essere uno Statuto che dà il via ad un rafforzamento culturale dei valori regionali e che permette ai catalani di vedere affermate le proprie qualità di popolo della nazione catalana.

È sicuramente questo lungo e paziente processo di egemonia culturale catalana rispetto a quella spagnola a far emergere nella regione la volontà di procedere verso l’indipendenza. La necessità di autodeterminazione come popolo nazionale sorge quindi in primo luogo dalle differenze culturali con il resto del Paese e, in maniera del tutto lecita, viene portata avanti dalle istituzioni locali con i crescenti proventi di un’economia in salute.

La volontà dei partiti di ottenere maggiore autonomia e progressivamente l’indipendenza è sempre stata contrastante: le forze di centrodestra sono contrarie, quelle di centrosinistra scettiche e quelle dell’ala indipendentista e di sinistra radicale favorevoli. Già nel 2014 c’era stata infatti una consultazione referendaria che già a suo tempo aveva affermato la richiesta di indipendenza (seppur con una partecipazione inferiore al 35%) ma che non aveva avuto risvolti significativi. La recente creazione di una coalizione partitica (Junts pel sì) abbastanza eterogenea, che sostiene l’opzione separatista e che ha raggiunto nelle elezione regionali del 2015 la maggioranza nel parlamento catalano, è stata la chiave di svolta. Con un presidente e una squadra di governo determinati nella causa indipendentista si è arrivati al voto della camera regionale che ha indetto il presente referendum con la netta contrarietà del PSOE (socialisti) e PP (popolari) e con l’astensione di Podemos, movimento emergente legato alla sinistra radicale.

La legge istitutiva votata dal parlamento locale è stata subito sospesa dalla Corte Costituzionale per l’evidente incostituzionalità dei suoi assunti, che violano l’art.2 della Costituzione in merito all’indivisibilità della Spagna. Questo intervento ha di per sé reso illegale non solo l’organizzazione del referendum ma anche qualsiasi risultato scaturente dalla votazione. L’arresto di alcuni esponenti delle istituzioni politiche catalane nel corso delle ultime settimane non ha reso il clima più sereno, aggravato ancora di più dopo l’invio in Catalogna di migliaia di agenti delle forze dell’ordine da parte del governo di Mariano Rajoy.

Nonostante la tensione fra istituzioni centrali e locali, fino al giorno precedente al voto nessuno poteva prevedere le scene raccontate dalle emittenti giornalistiche di tutto il mondo. Già sabato (30 settembre) un corteo di migliaia di persone contrarie al referendum e sostenitori del No, con le bandiere spagnole e dell’Europa, sfilava per le vie principali di Barcellona senza alcun problema inneggiando all’indivisibilità dello Stato. Domenica una presenza massiccia di polizia nazionale, che talvolta si è scrontata con i pompieri e la polizia locale (accusata di sedizione) a difesa dei votanti, faceva presagire un altro clima: i tafferugli, nei quali la popolazione inerme è stata picchiata e sgomberata dai seggi, si sono maggiormente riscontrati in alcuni centri della regione. A Barcellona gruppi di centinaia di persone per ogni collegio elettorale, organizzatisi in comitati di difesa, hanno presidiato e reso possibile le votazioni. Solo in alcuni casi l’irruzione degli agenti di polizia ha portato a violenze e al sequestro delle schede elettorali con la forza. Lunedì scorso in una calma apparente si è reso noto l’esito: con una affluenza seppur ridotta (non molto più bassa di qualsiasi elezione politica di un Paese occidentale) del 42%, motivata anche dalle intimidazioni e delle violenze della polizia che ha spinto molti sostenitori a non votare, il 90% dei votanti si è espresso favorevolmente all’indipendenza. Martedì lo sciopero generale delle principali sigle sindacali catalane ha bloccato la città: quasi ogni negozio e ufficio pubblico, compresa la metropolitana, è rimasto chiuso tutto il giorno; circa un milione di manifestanti pacifici e festosi ha invaso le strade di Barcellona per protestare contro le violenze e affermare la propria volontà di indipendenza rendendo finalmente effettivo l’esito del referendum. I comunicati del presidente Rajoy e del re Filippo VI non fanno sperare in un percorso verso questa direzione. Nella sua ferma posizione il governo catalano, nella persona del presidente Puigdemont, approverà una legge per mettere in pratica le tappe che portano all’indipendenza. L’esecutivo locale ha bisogno di dare una risposta ai cittadini che hanno votato favorevolmente all’indipendenza ed è per questo incentivato a collaborare con il governo Rajoy, il quale appare invece reticente. Le manifestazioni degli ultimi giorni, quelle delle migliaia di persone vestite di bianco in segno di pace, sostengono l’esigenza di una soluzione cooperativa per la quale c’è però bisogno della volontà di entrambe le parti e da Madrid, per il momento, non è stata dimostrata questa disponibilità. In un braccio di ferro politico che non lascia presagire un dialogo civile, le istituzioni europee restano a guardare nonostante gli appelli dell’esecutivo catalano a considerare la loro richiesta coincidente con il diritto all’autodeterminazione dei popoli, già applicato nel caso del Kosovo.

La riflessione che sorge dalla presentazione dei fatti non può che partire dall’evidenza: la violenza utilizzata dalla polizia nazionale è fuori da ogni limite di proporzionalità e può rappresentare un illecito internazionale; la comunque carente volontà alla cooperazione dimostrata a livello locale non è sicuramente comparabile all’ostinazione delle istituzioni centrali a negare il dialogo che aggrava la crisi regionale; la libertà di esprimere la propria opinione attraverso un voto, per quanto illegale ne sia il risultato, non può essere soppressa così brutalmente in un paese democratico.

Democrazia e libertà erano messe in gioco durante il referendum, quelle di un popolo che da anni si propone di rendersi indipendente non per egoismi economici ma per l’aver preso coscienza della propria diversità culturale che la Costituzione mononazionale spagnola non garantisce. Sotto lo scudo delle leggi costituenti e quindi dell’ordine già da tempo costituito, lo Stato mono-nazionale europeo affronta i regionalismi che proprio grazie all’Europa si sono sviluppati. Le politiche comunitarie rivolte agli attori politici locali hanno avuto migliore efficacia negli ultimi vent’anni rispetto a quelle verso gli Stati, baluardi dell’austerità e della crescita a tutti i costi. Ed è così che sentirsi europei e indipendentisti verso la propria regione è un modus pensandi perfettamente realizzabile (si veda il caso della Scozia), ciò è ancor più vero in quei contesti locali dove il sentimento identitario ha raggiunto dal punto di vista culturale un valore fondamentale. La questione economica è fuor di dubbio rilevante in alcuni regionalismi, ma soprattutto in Catalogna la partecipazione ampia della popolazione alle dimostrazioni degli ultimi anni (in un’epoca globalizzata di scarso coinvolgimento politico delle persone) sembra davvero essere una richiesta democratica e pacifica che, se non sarà presa in considerazione nel breve periodo, può diventare radicale e pericolosa per la stabilità della Spagna. I cittadini per le strade non chiedono il federalismo fiscale, o quantomeno non esclusivamente, piuttosto chiedono che la loro volontà di rendersi indipendenti venga rispettata o che comunque porti ad un dialogo proficuo come non lo è stato negli ultimi anni. Un dialogo che deve essere ripreso senza violenze e intimidazioni, ben considerando che le richieste della maggioranza dei catalani rappresentata nel parlamento locale non fermerà le sue richieste già vive e valide molto tempo prima dei fatti del primo ottobre.

In Spagna quindi, ci troviamo davanti alla crisi dello Stato nazione e all’avanzare di un regionalismo democratico stimolato da un forte sentimento culturale identitario e da una partecipazione collettiva inaspettata. A risolvere questa situazione è fondamentale che le istituzioni sovranazionali intervengano per rispondere alla richiesta, sorta in queste giornate storiche per la Catalogna, a favore dell’autodeterminazione di un popolo libero e democratico.

Emanuele Pinna Massa

Il primo ottobre potrebbe cambiare la storia del mondo occidentale. Potrebbe.

La celebrazione di un referendum per l’autodeterminazione, in sé, non è una notizia straodinaria. Nel mondo occidentale quello catalano non è il primo – e sicuramente non sarà l’ultimo -, ci sono stati i casi del Québec e della Scozia. Entrambi falliti, ma con distacchi minimi fra il Sì e il No. Il globo poi di casi ne presenta tanti, molte volte riusciti. Certamente bisogna sottolineare come la forma referendaria sia l’ultimo stadio di una battaglia per l’autodeterminazione che in Europa si combatte da tanto tempo e come l’affermazione di questo strumento decisionale coincida con la scelta – in Europa da parte di tutti i soggetti che lottano per la liberaizone nazionale – di abbandonare la lotta armata. Già qui si mette in luce una prima contraddizione nella reazione che gli stati nazionali, quelli che sono venuti fuori dall’età moderna, hanno messo in campo verso le lotte di autodeterminazione. La Spagna è quel Paese che rifiutava ogni trattativa con i baschi adducendo come giustificazione: «Coi terroristi non trattiamo».

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