Il primo ottobre potrebbe cambiare la storia del mondo occidentale. Potrebbe.

La celebrazione di un referendum per l’autodeterminazione, in sé, non è una notizia straodinaria. Nel mondo occidentale quello catalano non è il primo – e sicuramente non sarà l’ultimo -, ci sono stati i casi del Québec e della Scozia. Entrambi falliti, ma con distacchi minimi fra il Sì e il No. Il globo poi di casi ne presenta tanti, molte volte riusciti. Certamente bisogna sottolineare come la forma referendaria sia l’ultimo stadio di una battaglia per l’autodeterminazione che in Europa si combatte da tanto tempo e come l’affermazione di questo strumento decisionale coincida con la scelta – in Europa da parte di tutti i soggetti che lottano per la liberaizone nazionale – di abbandonare la lotta armata. Già qui si mette in luce una prima contraddizione nella reazione che gli stati nazionali, quelli che sono venuti fuori dall’età moderna, hanno messo in campo verso le lotte di autodeterminazione. La Spagna è quel Paese che rifiutava ogni trattativa con i baschi adducendo come giustificazione: «Coi terroristi non trattiamo».

Ora, benché l’ETA abbia deciso – unilateralmente – di rinunciare alla lotta armata e di consegnare le armi a soggetti terzi e parziali, le istituzioni spagnole hanno comunque deciso di non dare alcun ascolto alle numerose richieste da parte dell’organizzazione militare indipendentista basca di avviare trattative per la liberazione dei prigionieri politici. Non solo, ma nel momento in cui altri soggetti politici hanno deciso di provvedere democraticamente e pacificamente alla rivisitazione del rapporto tra Madrid e la loro nazione, in questo caso la Catalogna, hanno rifiutato nuovamente ogni trattativa. Ciò ha portato il governo catalano ha indire la consultazione del 1 ottobre e ad approntare gli strumenti legislativi e gli accorgimenti amministrativi che, in caso di vittoria del Sì, condurranno alla disconnessione, cioè alla nascita di una Repubblica di Catalogna. La risposta della Spagna è stata la stessa di sempre – mamma mia quanta poca fantasia: nessuna trattativa, repressione legale, minacce di arresto per politici eletti e velate minacce di utilizzo della forza militare.

Nessuno di noi può garantire con certezza la buona fede di Carles Puigdemont (presidente del Govern catalano) e degli altri soggetti politici che hanno organizzato la consultazione; in parole povere non possiamo essere certi che non si tratti solo di una mossa tattica che non punta tanto alla vittoria, quanto al raggiungimento di una posizione di forza maggiore per trattative su un ampliamento dell’autonomia catalana. Questa ipotesi è sostenuta da numerose parti, e, se ricordate bene, era molto in voga anche nel periodo del referendum scozzese. Solo che i toni fra le parti in gioco sono talmente alti che sembra difficile immaginare un esito accomodante o una prospettiva di questo genere da parte catalana. Ed inoltre c’è da tenere presente un altro elemento: come ogni processo politico, anche quello del referendum catalano è estremamente composito; se anche i dirigenti politici della componente moderata avessero questi programmi, sarebbero in grado di tenere sotto controllo il processo e di impedire alla loro stessa base, alle componenti più radicali, alla società civile e al popolo catalano di portarlo avanti? Insomma, questa della buona fede della coalizione per il Sì a mio parere è un finto problema, ed in ogni caso, in mancanza di elementi che provino la scelta tattica, credo che ci si debba fidare.

Ciò che importa di più, credo, è la legittimazione su cui questo referendum si fonda. Le critiche della spaesata sinistra istituzionale spagnola – che alla fine si sta semplicemente accodando a Rajoy e ai Popolari, assolutamente incapace di produrre una posizione propria – ma anche di autorevoli quotidiani come il Financial Times si fondano su una supposta scarsa legittimità della consultazione. «Il referendum non costituisce una base legale sufficiente per la statualità catalana», così si legge sulle colonne del FT. Ecco, mi chiedo se il 15 luglio del 1789 (99 anni prima della sua nascita) il Financial Times avrebbe titolato: “LA PRESA DELLA BASTIGLIA NON LEGITTIMEREBBE UN’EVENTUALE DECAPITAZIONE DI LUIGI XVI”. Il punto è il seguente: come può una rivoluzione, cioè un mutamento radicale dell’assetto istituzionale, fondarsi legittimamente sull’assetto istituzionale precedente? Facciamo due esempi, perché sennò non si coglie bene la ridicolaggine di questa posizione, ma ce ne sarebbero di infiniti:

  1. Lo Statuto albertino prevedeva l’eventualità di un referendum a suffragio universale perché gli italiani scegliessero tra monarchia e repubblica?
  2. L’ordinamento costituzionale inglese, non scritto ovviamente, prevedeva la possibilità che le colonie nord americane dichiarassero la propria indipendenza?

La posizione del FT è carta straccia, insomma, e tutti quelli che la supportano sono personaggi di cui si dovrebbe valutare la capacità di intendere e di volere, procedendo nel caso di bisogno ad assegnare un tutore.

La consultazione e la strategia politica della coalizione per il Sì – strategia che non è iniziata un paio di mesi fa, ma parecchi anni fa – sono chiaramente extralegali, ma non per questo illegittime. Il supporto popolare, checché se ne dica, è sotto gli occhi di tutti. Non possiamo avere la certezza che non ci sia una maggioranza silenziosa che si alzerà e voterà no il giorno del referendum, ma sicuramente non c’è stata una maggioranza rumorosa che si sia opposta a questo processo. Processo che, e va sottolineato, è in corso da anni ed è passato attraverso varie fasi di legittimazione democratica, non ultime le elezioni che hanno consentito alla coalizione per il Sì di andare a governare la Generalitat catalana. Hanno voglia i critici della domenica di dire che il referendum è stato proclamato con un colpo di stato: quando si sono presentati insieme davanti agli elettori i partiti indipendentisti lo avevano dichiarato che avrebbero avviato un processo che sarebbe culminato col referendum, e le elezioni le hanno vinte, non hanno preso il potere con la forza. L’iniziativa è legittima senza alcun dubbio, non foss’altro che nel fronte di chi ne sostiene l’illegittimità ci trovi personaggi come Terjero, il militare che tentò il golpe nel 1981 entrando nel parlamento madrileno pistola in pugno – bellini proprio i socialisti e gli intellettuali di sinistra spagnolisti che stanno dalla stessa parte dei franchisti!

Potrebbe cambiare la storia dunque, potrebbe perché non sappiamo come andrà a finire. Ma se il Sì vincesse, la Storia riceverebbe una bella spintarella nella direzione della scomparsa di quei rottami ottocenteschi che sono gli Stati nazionali che conosciamo. La legittimità di queste istituzioni è dubbia già da decenni, resta solo da scegliere fra democrazia dei popoli e delle nazioni, o recrudescenza dei nazionalismi violenti e xenofobi. Quel che succederà il primo ottobre in Catalogna, non riguarda solo i catalani e gli spagnoli. Riguarda anche noi sardi, riguarda ogni popolo senza stato d’Europa. Se il referendum vedrà la vittoria del No, poco importa, il processo è in corso e avremo altre occasioni molto a breve. Ma se la repressione spagnola dovesse averla vinta sui diritti dei catalani allora sarebbe un precedente che rischierebbe di bloccare le nostre speranze per tantissimo tempo: per questo dovremo essere pronti, se necessario, a difendere il diritto all’autodeterminazione dei catalani ad ogni costo. Perdere significherebbe una battuta d’arresto determinante, come la sconfitta nella guerra civile di Spagna determinò l’arretramento per i progressisti di tutta l’Europa occidentale. Una vittoria invece potrebbe innescare una reazione a catena dagli effetti imprevedibili, ma che dovremmo sicuramente essere pronti a gestire. Il clima non sembra esserci, è vero, ma gli eventi rivoluzionari sono quasi sempre inaspettati.

dp