Sardegna, qual è l’obiettivo?

rengliaruLa Sardegna è un’isoletta che naviga in un mare di merda. Gli indicatori sociali dicono questo, in termini edulcorati, ma dicono questo: disoccupazione al 19%, disoccupazione giovanile al 56%, dispersione scolastica al 24%, nel 2015 c’erano 9 mila analfabeti, NOVEMILA! Bene, continuiamo con la metafora. Immaginate di essere in una nave che attraversa un oceano in tempesta, avendo completamente perso la rotta e andando incontro a un naufragio sicuro. Voi fate parte della ciurma di questa nave e vi rendete conto che l’unico modo che avete per salvarvi è prendere il comando della nave, ma sapete benissimo che da soli non potetete mai farcela. Che fare? La cosa migliore è senza dubbio cercare di coinvolgere gli altri marinai e passeggeri e organizzare un ammutinamento, per prendere il controllo della nave finché si è ancora in tempo per salvarla. E qual è il vostro obiettivo immediato? L’armatore che ha progettato quel viaggio inutile e disperato? Beh sì, è un bastardo e bisognerà prendersela anche con lui, ma insultarlo e maledirlo non servirà a niente nel tentativo di salvare la nave e la sua ciurma. L’obiettivo immediato è il capitano della nave, che non si capisce bene perché vada verso il naufragio; magari lo fa perché gli è stato promesso un grande compenso al termine del viaggio, magari perché concorda pienamente con le idee dell’armatore, magari perché è solo troppo ingenuo per vedere come stanno andando le cose. Ciò che conta è che lo sta facendo e, se tu e gli altri marinai volete salvarvi, dovete toglierlo dal posto di comando e occuparvene voi.

Ora possiamo uscire dalla metafora. Che la Sardegna vada verso il naufragio è evidente e che molte colpe siano dello Stato italiano e delle sue pratiche coloniali e depredatrici non c’è manco bisogno di dirlo. Prendersela con lo Stato in questo momento è certo necessario, bisogna ribadire con forza e spiegare a tutti perché l’Italia ha una grossa fetta di responsabilità in questa nostra situazione. Tuttavia l’emergenza immediata si può risolvere solo prendendo il posto di comando, il timone. Francesco Pigliaru e la sua giunta sono enormemente delegittimati dopo il referendum del 4 dicembre. Questa non è un’affermazione preregrina: la riscrittura dello statuto e la revisione dei rapporti Stato-Regione era al centro del programma di governo presentato agli elettori dal centrosinistra/sovranista. Era inoltre il collante ufficiale dell’alleanza con Rossomori, iRS e Partito dei Sardi.  Alcuni dentro la maggioranza se ne sono già accorti: l’assessore preposto alla redazione del nuovo statuto, Gianmario Demuro, acceso sostenitore del Sì ha tratto le giuste conclusioni e ha presentato questa mattina le dimissioni; i Rossomori, preso atto dell’incapacità di questa maggioranza di incidere e della sfiducia espressa dagli elettori con il voto referendario nei confronti dei progetti di revisione del rapporto autonomistico, hanno dichiarato che abbandoneranno la maggioranza di governo. Altri fanno gli gnorri, ma siamo sicuri che stanno solo fiutando l’aria per capire da che parte gli conviene bentulare. Il migliore di tutti però è Pigliaru che ha dichiarato: “È stato il voto su una proposta del Governo per riformare alcune parti della Costituzione. Una proposta che io ho condiviso perché ritengo che avrebbe semplificato il sistema Italia e non avrebbe messo a rischio la nostra autonomia”, e ancora: “Non posso che prenderne atto, a maggior ragione di fronte a una partecipazione così alta e appassionata che rivela anche un malcontento diffuso e la domanda di azioni più incisive per migliorare la vita delle persone”. Eh no… Pigliaru sta dicendo tutto e non sta dicendo nulla in realtà. Tu hai investito tutto sull’idea di costruire un nuovo patto per l’autonomia, e hai affidato la realizzazione di questo patto a un assessore che è stato il primo in Sardegna a schierarsi con il Sì. Le due cose sono intimamente connesse: venuto meno il progetto di Renzi viene meno anche il progetto di Pigliaru e Demuro di rifare lo statuto. Aggiungiamoci poi gli scellerati piani sulla sanità, la terribile condizione descritta dagli indicatori statistici di cui sopra e il silenzio totale sulla questione dell’occupazione militare e sulla speculazione fondiaria e capite bene che stiamo davvero andando verso il naufragio e che fra qualche decennio potremmo non essere più in grado di salvarci. E allora ita fadeus? Un ammutinamento democratico: nessun colpo di stato (o di regione), nessun assalto al palazzo di viale Trento; lavoriamo piuttosto per diffondere la consapevolezza che dobbiamo cambiar rotta al più presto, che questa classe politica non rappresenta nessuno perché si trova lì grazie a una legge elettorale oscena, che dobbiamo prendere in mano il nostro destino e agire di conseguenza. Magari ne verrà fuori davvero una mobilitazione popolare per le dimissioni di Pigliaru e soprattutto per la costituzione di una nuova autonomia, solida e democratica, e, siccome la maggioranza ha già iniziato a sfaldarsi, una spintarella democratica si può e si deve dare, mobilitando in primo luogo l’opinione pubblica. Sarebbe perciò molto bello se, ognuno con il suo stile comunicativo e con le sue pratiche, dai comitati al movimento contro le basi, passando per i partiti indipendentisti e per i movimenti sociali, lanciassimo questa parola d’ordine, tanto per incominciare a progettare il nostro futuro: Pigliaru dimettiti. Al resto, al modello di società che vorremmo, alle pratiche predatorie e speculative che vorremmo vedere sparire da questa terra (e dalla Terra in generale) ci stiamo pensando già da tempo e ci penseremo ancora. Ma non possiamo pretendere di lottare per quelle cose, senza lottare anche contro il più diretto e più vicino responsabile di questa situazione.

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REFERENDUM, NUOVO STATUTO E INDIPENDENZA. APPELLO AI PARTITI, AI MOVIMENTI E ALLE PERSONE

sardegnaI risultati del referendum costituzionale in Sardegna sono inequivocabili. La vittoria schiacciante del NO è un segnale chiaro e indubitabile, della totale delegittimazione della classe politica italiana e della sua appendice sarda. Personaggi che pensano alla loro carriera prima che agli interessi dell’isola, vedi Pigliaru e Zedda e i loro endorsement al Sì, forse illuminati dalla prospettiva del seggio senatorio. Inoltre è un chiaro rifiuto dei sardi delle tendenze neocentraliste in auge in Italia e in tutta Europa grazie all’azione e all’influenza delle agenzie finanziare internazionali, e appoggiate dal succube centrosinistra isolano. Questo significa che è necessario rispondere non tanto con la sterile difesa dell’autonomia come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi, ma con il suo ampliamento e ammodernamento, con la prospettiva finale dell’indipendenza.

Per questo aderiamo alla proposta di ProgReS – Progetu Repùblica, rilanciata oggi da Cristiano Sabino del Fronte Indipendentista Unidu. Riscrivere lo statuto partendo da tre capisaldi: 1) Riconoscimento della nazione sarda; 2) Riconoscimento della co-ufficialità del sardo e delle altre lingue di minoranza parlate nell’isola; 3) Riconoscimento del diritto all’autodeterminazione.

Come procedere in questa direzione? Proviamo a fare una modesta proposta, sperando che chi la legge ne lasci perdere la pretenziosità e si concentri sul fatto che è necessario stilare una road map per andare verso questo obiettivo. Potrebbero essere solo fantasie, ma parlarne non fa male.

Un primo passaggio deve essere a nostro parere una mobilitazione popolare che ribadisca che la fiducia nei confronti del presidente della regione Pigliaru è venuta meno. Il risultato elettorale conferma questo assunto, di cui molti erano consapevoli già da tempo. Pigliaru ha abbracciato un tentativo di riforma della costituzione italiana che mirava a restringere fortemente l’autonomia delle regioni, Sardegna inclusa. Tutti i discorsi sulla rinascita dell’autonomia si sono rivelati semplice aria fritta. Considerando che questi discorsi erano alla base del programma elettorale che ha portato Pigliaru alla presidenza, con la complicità di un’astensione altissima e di una legge elettorale indegna, diventa evidente che le dimissioni sono l’unica scelta praticabile da Pigliaru. Tale scelta potrebbe ricevere una spintarella dai partiti della maggioranza che hanno sostenuto  il NO al Referendum e se queste organizzazioni non vogliono perdere il sostegno elettorale, hanno hanno ben poche altre possibilità. Gli elettori sardi hanno parlato, Pigliaru non li rappresenta più.

Il secondo passaggio potrebbe essere la creazione di un fronte popolare che riunisca le forze indipendentiste e autonomiste che punti a vincere le elezioni con due obiettivi di governo in particolare: 1) modifica della legge elettorale regionale in senso maggiormente rappresentativo; 2) indizione di elezioni con una legge proporzionale pura per la creazione di un’assemblea costituente, rappresentativa della società sarda nella sua interezza, capace di costruire uno statuto dell’autonomia moderno, più ampio e, perché no?, con l’obiettivo finale dell’indipendenza.

Infine a questo punto scatterebbe il “liberi tutti”. In altre parole all’interno di questa assemblea costituente le forze partecipanti dovranno porsi l’obiettivo di costruire uno statuto condiviso e rappresentativo, magari con una scadenza temporale di uno o due anni, e terminato questo processo sottoporre il testo a un referendum confermativo che permetta ai cittadini di esprimersi in maniera diretta. Dopo il rererendum, se l’esito fosse l’approvazione dello Statuto, si dovrebbe procedere alle dimissioni della Giunta e dunque a nuove elezioni.

Fantasie? Forse si tratta solo di quello, ma se vogliamo fare passi in avanti ci tocca iniziare a ragionare concretamente.

Collettivo Furia Rossa – Oristano

RIFORMA COSTITUZIONALE: LE (VERE) RAGIONI DEL SI’

Cosa succede in Italia? Il 4 dicembre si vota il referendum che deve confermare  o respingere la riforma costituzionale proposta dal governo Renzi. Qual è il contenuto di questa riforma?  Partiamo dalla scheda che gli elettori si troveranno davanti domenica. “Approvate il testo della legge costituzionale concernente disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del Titolo V della Costituzione (…)?”.

  • Superamento del bicameralismo paritario e riduzione del numero di parlamentari. Il quesito riguarda la modifica delle funzioni e dei ruoli delle due camere. Non è assolutamente vero che il senato viene abolito, quello che accade è che viene ridefinito nella sua composizione e che le sue funzioni mutano. I senatori, in caso di vittoria del sì, sarebbero 100 invece che 315 e il senato dovrebbe configurarsi come una sorta di camera che fa gli interessi delle regioni, contrapponendoli o bilanciandoli con quelli dello stato centrale. Per quanto riguarda la riduzione del numero di senatori, la rinuncia a 215 seggi e all’indennità (ossia la retribuzione mensile dei parlamentari) dei 100 rimanenti implica un risparmio del tutto ininfluente nel bilancio statale e sfidiamo chiunque a contestare questa affermazione.  Per quanto riguarda il ruolo di questo “Senato delle regioni” c’è parecchio da eccepire. Un reale senato delle autonomie dovrebbe essere composto in maniera tale che ogni regione avesse lo stesso numero di senatori, mentre è abbastanza sicuro che ne verrà fuori un senato in cui i seggi saranno assegnati in maniera proporzionale al numero di abitanti di ogni regione. La Sardegna conterebbe quanto il troddio di un bambino in mezzo a un tornado. Nel momento in cui il senato dovrà decidere in merito alle questioni che riguardano le regioni, la Sardegna sarà sola. E questo è grave perché le peculiari condizioni socio-economiche della nostra isola la rendono in massima parte differente dalle altre regioni italiane. Quale regione, interamente abitata da più minoranze linguistiche, si trova in condizioni di spopolamento e sottosviluppo come la nostra? Nessuna. Nel momento in cui si dovrà decidere dove mettere le scorie nucleari, dove situare impianti industriali ad alto tasso d’inquinamento o dove dislocare e imporre nuove servitù militari, la Sardegna, con due o tre senatori, peraltro neanche eletti direttamente dai cittadini, ma nominati dai partiti del Consiglio regionale, si troverà disperatamente sola e debole.
  • Contenimento dei costi delle istituzioni e soppressione del CNEL: Semplicemente è uno specchietto per le allodole. La riduzione dei costi riguarda solo il fatto che i senatori non avranno più l’indennità e l’abolizione del CNEL, si tratta di bazzeccole nelle esigenze di bilancio di un paese di 60 milioni di abitanti. Il CNEL è un ente previsto in Costituzione che ha il ruolo di dare consigli al governo e al parlamento nel momento in cui vengono adottati provvedimenti in materia di economia e lavoro; il suo ruolo è stato progressivamente superato da quello dei sindacati, delle associazioni degli imprenditori, della Banca d’Italia, dell’Unione Europea, del Fondo Monentario Internazionale, eccetera eccetera, ossia di quegli enti che intervengono nel dibattito pubblico ogni qualvolta il parlamento esamina leggi di questo tipo. Ciò che è importante dire è che il CNEL si poteva abolire senza modificare altri aspetti della costituzione, se c’era tutta questa urgenza. Il governo ha invece deciso di farlo nel quadro di una riforma che modifica l’ordinamento costituzionale italiano, il che provoca numerosi problemi agli elettori, perché una cosa positiva non può essere impacchettata insieme a cose della cui positività si dubita. Insomma, la puzza di contentino è forte: “Abbiamo abolito il CNEL, che fai, non voti sì? Se voti no vuol dire che vuoi mantenere i privilegi della vecchia politica!”. Il problema non è questo tuttavia, il problema sta alla base ed è il segno di un atteggiamento ormai molto diffuso nei confronti dei principi della democrazia. Avete notato tutti quei link su Facebook che chiedono l’abolizione del suffragio universale perché c’è gente troppo stupida per avere il diritto di voto? Sembrano innocui e divertenti, ma nascondono dietro di sé la brutta piega che sta prendendo la politica europea. Questa brutta piega si chiama tecnocrazia e implica la restrizione degli spazi di partecipazione democratica. Altre facce di questa medaglia sono i ricatti e le influenze dei mercati finanziari sull’esito delle elezioni, oppure il fatto che in Italia un governo non eletto dai cittadini*, con i voti di un parlamento eletto con una legge elettorale incostituzionale, abbia approvato una riforma radicale della Costituzione solo perché votare adesso significherebbe innervosire i mercati e farci ripiombare nella crisi più nera. Presentare la democrazia come una qualsiasi merce, di cui devi valutare il rapporto costi-benefici, ossia capire se il gioco vale la spesa che devi affrontare è estremamente pericoloso. Renzi questo lo ha già fatto, quando ha detto che il referendum sulle trivelle era uno spreco di denaro. Eppure gli istituti democratici dovrebbero essere considerati alla stregua della sanità pubblica, cioè un bene il cui costo non è importante, perché è fondamentale che ci sia.  Certo, la democrazia occidentale, quella che conosciamo, ha tanti limiti, spesso si rivela essere solo una facciata che nasconde il ruolo di poteri forti e gruppi di interesse che gestiscono tutto in segreto; tuttavia chi può credere che la strada per migliorarla passi dalla chiusura dei pochi spazi reali di partecipazione che garantisce ai cittadini? I costi che non vanno bene non sono quelli che garantiscono una maggiore ampiezza della partecipazione democratica, ma quelli dovuti alla corruzione, alla tendenza a utilizzare fondi pubblici per spese personali o di gruppi ristretti, alle infilitrazioni mafiose. Tutte cose che con la costituzione non c’entrano niente.
  • Revisione del Titolo V. Il Titolo V è quella parte della Costituzione che si occupa dei rapporti fra le Regioni e lo Stato. In qualsiasi stato ci sono delle tensioni tra lo stato centrali e le sue articolazioni locali. In Italia questo fatto è aggravato da varie questioni. In primo luogo il processo di unificzione nazionale, il risorgimento, è stato un processo guidato dall’alto: dalla famiglia reale dei Savoia, dalla borghesia industriale del Nord e dai latifondisti del meridione. Ciò ha implicato il mancato coinvolgimento delle popolazioni in questo processo, col risultato che le decisioni e le scelte sono state sempre fatte in favore di una ristretta élite. Questo ha avuto come conseguenza il fatto che si creasse con l’andare del tempo un divario sempre più ampio fra lo sviluppo di alcune aree geografiche e quella parte del paese meno rappresentata all’interno di questa élite (la Sardegna, manco a dirlo, si trova fra le regioni sfortunate, anche se la sua condizione andrebbe analizzata a parte per le peculiarità che la contraddistinguono). In secondo luogo dunque vi è la disparità socio-economica fra Nord e Sud del paese, alla quale va aggiunta il fatto che fra queste due aree è sorto un rapporto del tipo colonizzatore-colonia. Inutile dire a questo punto che, se questa situazione si è originata per il centralismo esasperato, qualsiasi tentativo di riforma che volesse puntare al miglioramento delle condizioni di vita materiali della popolazione italiana nel suo complesso debba puntare a togliere poteri allo stato centrale per assegnarli alle regioni. Questa riforma fa l’esatto opposto. Le regioni vengono spogliate di numerosi poteri, e addirittura si inserisce una clausola di supremazia che permette allo Stato di scavalacare gli interessi delle regioni, quando sono in gioco presunti interessi nazionali. In parole povere, per una questione come quella del Deposito unico nazionale per le scorie nucleari, lo Stato potrebbe dire che, essendo una questione strategica, è lui l’unico autorizzato a decidere dove e come vada situato, e le regioni non potrebbero metterci bocca. Ora, il problema è: se l’unificazione nazionale ha avuto i presupposti e i risultati che abbiamo visto prima, di quale nazione parliamo quando parliamo di interesse nazionale? Se il ragionamento fatto sopra è corretto, quando si parla di nazione in Italia bisogna intendere non il popolo che abita quel territorio, ma una ristretta élite fatta di ricchi industriali, mafiosi, massoni e politici, con tutti i loro servi. Quando lo Stato decide nell’interesse nazionale, vuol dire che decide nell’intersse di questa élite.

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