RIFORMA COSTITUZIONALE: LE (VERE) RAGIONI DEL SI’

Cosa succede in Italia? Il 4 dicembre si vota il referendum che deve confermare  o respingere la riforma costituzionale proposta dal governo Renzi. Qual è il contenuto di questa riforma?  Partiamo dalla scheda che gli elettori si troveranno davanti domenica. “Approvate il testo della legge costituzionale concernente disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del Titolo V della Costituzione (…)?”.

  • Superamento del bicameralismo paritario e riduzione del numero di parlamentari. Il quesito riguarda la modifica delle funzioni e dei ruoli delle due camere. Non è assolutamente vero che il senato viene abolito, quello che accade è che viene ridefinito nella sua composizione e che le sue funzioni mutano. I senatori, in caso di vittoria del sì, sarebbero 100 invece che 315 e il senato dovrebbe configurarsi come una sorta di camera che fa gli interessi delle regioni, contrapponendoli o bilanciandoli con quelli dello stato centrale. Per quanto riguarda la riduzione del numero di senatori, la rinuncia a 215 seggi e all’indennità (ossia la retribuzione mensile dei parlamentari) dei 100 rimanenti implica un risparmio del tutto ininfluente nel bilancio statale e sfidiamo chiunque a contestare questa affermazione.  Per quanto riguarda il ruolo di questo “Senato delle regioni” c’è parecchio da eccepire. Un reale senato delle autonomie dovrebbe essere composto in maniera tale che ogni regione avesse lo stesso numero di senatori, mentre è abbastanza sicuro che ne verrà fuori un senato in cui i seggi saranno assegnati in maniera proporzionale al numero di abitanti di ogni regione. La Sardegna conterebbe quanto il troddio di un bambino in mezzo a un tornado. Nel momento in cui il senato dovrà decidere in merito alle questioni che riguardano le regioni, la Sardegna sarà sola. E questo è grave perché le peculiari condizioni socio-economiche della nostra isola la rendono in massima parte differente dalle altre regioni italiane. Quale regione, interamente abitata da più minoranze linguistiche, si trova in condizioni di spopolamento e sottosviluppo come la nostra? Nessuna. Nel momento in cui si dovrà decidere dove mettere le scorie nucleari, dove situare impianti industriali ad alto tasso d’inquinamento o dove dislocare e imporre nuove servitù militari, la Sardegna, con due o tre senatori, peraltro neanche eletti direttamente dai cittadini, ma nominati dai partiti del Consiglio regionale, si troverà disperatamente sola e debole.
  • Contenimento dei costi delle istituzioni e soppressione del CNEL: Semplicemente è uno specchietto per le allodole. La riduzione dei costi riguarda solo il fatto che i senatori non avranno più l’indennità e l’abolizione del CNEL, si tratta di bazzeccole nelle esigenze di bilancio di un paese di 60 milioni di abitanti. Il CNEL è un ente previsto in Costituzione che ha il ruolo di dare consigli al governo e al parlamento nel momento in cui vengono adottati provvedimenti in materia di economia e lavoro; il suo ruolo è stato progressivamente superato da quello dei sindacati, delle associazioni degli imprenditori, della Banca d’Italia, dell’Unione Europea, del Fondo Monentario Internazionale, eccetera eccetera, ossia di quegli enti che intervengono nel dibattito pubblico ogni qualvolta il parlamento esamina leggi di questo tipo. Ciò che è importante dire è che il CNEL si poteva abolire senza modificare altri aspetti della costituzione, se c’era tutta questa urgenza. Il governo ha invece deciso di farlo nel quadro di una riforma che modifica l’ordinamento costituzionale italiano, il che provoca numerosi problemi agli elettori, perché una cosa positiva non può essere impacchettata insieme a cose della cui positività si dubita. Insomma, la puzza di contentino è forte: “Abbiamo abolito il CNEL, che fai, non voti sì? Se voti no vuol dire che vuoi mantenere i privilegi della vecchia politica!”. Il problema non è questo tuttavia, il problema sta alla base ed è il segno di un atteggiamento ormai molto diffuso nei confronti dei principi della democrazia. Avete notato tutti quei link su Facebook che chiedono l’abolizione del suffragio universale perché c’è gente troppo stupida per avere il diritto di voto? Sembrano innocui e divertenti, ma nascondono dietro di sé la brutta piega che sta prendendo la politica europea. Questa brutta piega si chiama tecnocrazia e implica la restrizione degli spazi di partecipazione democratica. Altre facce di questa medaglia sono i ricatti e le influenze dei mercati finanziari sull’esito delle elezioni, oppure il fatto che in Italia un governo non eletto dai cittadini*, con i voti di un parlamento eletto con una legge elettorale incostituzionale, abbia approvato una riforma radicale della Costituzione solo perché votare adesso significherebbe innervosire i mercati e farci ripiombare nella crisi più nera. Presentare la democrazia come una qualsiasi merce, di cui devi valutare il rapporto costi-benefici, ossia capire se il gioco vale la spesa che devi affrontare è estremamente pericoloso. Renzi questo lo ha già fatto, quando ha detto che il referendum sulle trivelle era uno spreco di denaro. Eppure gli istituti democratici dovrebbero essere considerati alla stregua della sanità pubblica, cioè un bene il cui costo non è importante, perché è fondamentale che ci sia.  Certo, la democrazia occidentale, quella che conosciamo, ha tanti limiti, spesso si rivela essere solo una facciata che nasconde il ruolo di poteri forti e gruppi di interesse che gestiscono tutto in segreto; tuttavia chi può credere che la strada per migliorarla passi dalla chiusura dei pochi spazi reali di partecipazione che garantisce ai cittadini? I costi che non vanno bene non sono quelli che garantiscono una maggiore ampiezza della partecipazione democratica, ma quelli dovuti alla corruzione, alla tendenza a utilizzare fondi pubblici per spese personali o di gruppi ristretti, alle infilitrazioni mafiose. Tutte cose che con la costituzione non c’entrano niente.
  • Revisione del Titolo V. Il Titolo V è quella parte della Costituzione che si occupa dei rapporti fra le Regioni e lo Stato. In qualsiasi stato ci sono delle tensioni tra lo stato centrali e le sue articolazioni locali. In Italia questo fatto è aggravato da varie questioni. In primo luogo il processo di unificzione nazionale, il risorgimento, è stato un processo guidato dall’alto: dalla famiglia reale dei Savoia, dalla borghesia industriale del Nord e dai latifondisti del meridione. Ciò ha implicato il mancato coinvolgimento delle popolazioni in questo processo, col risultato che le decisioni e le scelte sono state sempre fatte in favore di una ristretta élite. Questo ha avuto come conseguenza il fatto che si creasse con l’andare del tempo un divario sempre più ampio fra lo sviluppo di alcune aree geografiche e quella parte del paese meno rappresentata all’interno di questa élite (la Sardegna, manco a dirlo, si trova fra le regioni sfortunate, anche se la sua condizione andrebbe analizzata a parte per le peculiarità che la contraddistinguono). In secondo luogo dunque vi è la disparità socio-economica fra Nord e Sud del paese, alla quale va aggiunta il fatto che fra queste due aree è sorto un rapporto del tipo colonizzatore-colonia. Inutile dire a questo punto che, se questa situazione si è originata per il centralismo esasperato, qualsiasi tentativo di riforma che volesse puntare al miglioramento delle condizioni di vita materiali della popolazione italiana nel suo complesso debba puntare a togliere poteri allo stato centrale per assegnarli alle regioni. Questa riforma fa l’esatto opposto. Le regioni vengono spogliate di numerosi poteri, e addirittura si inserisce una clausola di supremazia che permette allo Stato di scavalacare gli interessi delle regioni, quando sono in gioco presunti interessi nazionali. In parole povere, per una questione come quella del Deposito unico nazionale per le scorie nucleari, lo Stato potrebbe dire che, essendo una questione strategica, è lui l’unico autorizzato a decidere dove e come vada situato, e le regioni non potrebbero metterci bocca. Ora, il problema è: se l’unificazione nazionale ha avuto i presupposti e i risultati che abbiamo visto prima, di quale nazione parliamo quando parliamo di interesse nazionale? Se il ragionamento fatto sopra è corretto, quando si parla di nazione in Italia bisogna intendere non il popolo che abita quel territorio, ma una ristretta élite fatta di ricchi industriali, mafiosi, massoni e politici, con tutti i loro servi. Quando lo Stato decide nell’interesse nazionale, vuol dire che decide nell’intersse di questa élite.

Questi sono i fatti. Intorno c’è tutto un corollario di propaganda. La cosa più sentita è che questa riforma permetterà all’Italia di tornare a muoversi, e che se perdiamo quest’occasione resteremo fermi per sempre. Ma chi è che può dire che il problema dell’Italia sia la sua costituzione? Con quale faccia si può dire che la mafia è un prodotto della costituzione italiana? Con quale faccia si può dire che l’esistenza di una borghesia parassita e di una classe politica corrotta siano frutto degli articoli della costituzione italiana? Il sottosviluppo del meridione è colpa dell’esistenza del Senato, o del fatto che la classe politica italiana è culo e camicia con gli interessi di banche e ricchi industriali? Se i politici sono corrotti, perché cancellandone 215 si dovrebbe avere la certezza che quelli che restano sono puliti? A queste domande gli esponenti del Sì non daranno risposte. Il vero centro della questione infatti è che questa riforma non persegue gli obiettivi dichiarati dai sostenitori del Sì. L’obiettivo è uno e uno solo: modificare il sistema politico italiano in maniera tale che chi vinca le elezioni possa governare per 5 anni senza cadere, infischiandosene della fiducia dei cittadini. In questa maniera potrà mettere in pratica tutte le richieste della Commissione Europea, della Banca Centrale Europea, del Fondo Monetario Internazionale e dei mercati finanziari, ossia quelle istituzioni non elette da nessuno che, in questi anni di crisi, hanno aiutato i ricchi del mondo ad arricchirsi sempre di più sulla pelle dei popoli. Queste richieste saranno la privatizzazione della sanità, dell’istruzione, la diminuzione delle pensioni, la cancellazione dei diritti conquistati dai lavoratori, la riduzione dei salari e degli stipendi e la costruzione di grandi opere utili solo alle tasche delle imprese multinazionali. Gli indipendentisti che non sanno se il 4 dicembre andranno a votare devono rendersi conto che la nostra battaglia sarà ancora più difficile in un’Italia centralista e meno democratica. Chi non è indipendentista deve comunque mettersi in testa che se domenica vince il Sì, ci troveremo davanti a un bivio: da una parte il neofascismo di Salvini, dall’altra la dittatura tecnocratica e finanziaria. Forse è il caso di cambiare strada prima che sia troppo tardi e il 4 dicembre può essere una buona occasione per imboccarne un’altra, votando NO.

 

*Sì, certo… a livello formale l’Italia è ancora una repubblica parlamentare, ma nessuno può negare che nella prassi il ruolo del primo ministro sia diventato un ruolo che necessita dell’investitura popolare.