CI SERVE UN NUOVO STATUTO! PROPOSTA PER UN’ASSEMBLEA COSTITUENTE DEI SARDI

Nessuna pretesa che questa proposta venga presa in considerazione immediatamente, dato che in molti sono impegnati nelle elezioni. Nessuna pretesa nemmeno che venga accettata senza critiche, che anzi sono ben accette, perché ciò che serve è un dibattito e non basta dire genericamente che bisogna rifare lo statuto, bisogna anche capire con quali modalità. L’unica cosa che conta è parlarne, perché oltre alla sua cronica debolezza, l’autonomia sarda  ha un nuovo problema all’orizzonte: l’autonomia delle regioni del Nord in salsa leghista. E i tempi rischiano di essere stretti.

Durante la campagna elettorale per le Regionali 2019 sentiremo tante belle proposte per risollevare la Sardegna e, per carità, molte di esse avranno un effettivo valore: piccoli o grandi interventi in grado di curare gli aspetti più critici della nostra isola malata. Probabilmente non mancheranno interventi relativi a una delle cause principali della nostra condizione, ossia l’inadeguatezza dello Statuto autonomistico, ma, considerando che non ci sono serie possibilità – grazie a una legge elettorale antidemocratica – di avere un Consiglio Regionale adatto a intervenire su questa materia, si corre il rischio che tali interventi restino confinati all’ambito dei buoni propositi.

Parte consistente e rispettabile della storiografia isolana non ha dubbi nel dipingere la scrittura dello Statuto come un momento fallimentare della storia politica sarda, ai limiti del masochismo. L’errore principale sta alla base: l’Autonomia fu considerata il risarcimento per le morti sarde nella Grande Guerra, non una inevitabile necessità dovuta all’esistenza di innegabili differenze nella storia istituzionale e sociale di Sardegna e Italia, al fatto, insomma, che i sardi fossero un popolo diverso da quello italiano (sempre che ne esista uno). L’altro limite, anche questo fondante, è che lo Statuto, così come è concepito, lega indissolubilmente la crescita economica e morale della Sardegna all’intervento italiano, anzi la subordina all’aiuto continentale. Per carità, la ratio dell’articolo 13 Lo Stato col concorso della Regione dispone un piano organico per favorire la rinascita economica e sociale dell’Isola») è anche comprensibile: una legge di rango costituzionale obbligava l’Italia a spendere soldi per risollevare un’isola in condizioni di assoluto declino. Tuttavia è chiaro come – formulato in questi termini, con la Regione che diventa poco più che un aiutante, con un ruolo fortemente limitato nella creazione di questo piano – il risultato sia stato quello di aver sancito nella nostra “costituzione” la sudditanza della Sardegna nei confronti dell’Italia. I risultati dei due piani di rinascita sono lì a dimostrare questo.

A settant’anni di distanza, soprattutto se consideriamo che viviamo in un’epoca in cui è egemone l’ideologia del fare e della supremazia della tecnica sulla riflessione, possono sembrare questioni di lana caprina: meglio intervenire sui trasporti, sull’insularità (qualsiasi cosa voglia dire), etc… In realtà credo non esista una scala di valori: sia gli interventi palliativi – perché di questo si tratta, dal momento che non attaccano la base del problema, ossia la condizione di subordinazione coloniale della Sardegna nei confronti dell’Italia – che quelli che attaccano il problema in sé hanno la loro importanza. Tuttavia non si può negare che l’intervento sullo Statuto, in primo luogo sui principi fondamentali e poi sugli aspetti di carattere tecnico-giuridico, sia una necessità immediata, da perseguire contemporaneamente alle proposte di soluzione dei problemi concreti di quest’isola.

Però c’è un problema, la legge elettorale è talmente antidemocratica, che il Consiglio Regionale che verrà fuori da queste regionali non avrà la benché minima rappresentatività (né l’autorevolezza, figuriamoci!) per riscrivere lo Statuto autonomistico. Qualcuno potrebbe dire: «Abbiamo aspettato 70 anni, aspettiamone altri cinque!». Io non credo sia possibile attendere. In primo luogo non c’è alcun indizio, ora come ora, che lasci credere che alle regionali 2024 le cose debbano andare diversamente da come andranno stavolta. Questa però non è la ragione forte, il vero problema è che la crescita leghista porterà verosimilmente a una riscrittura, in tempi brevi, dell’assetto istituzionale della Repubblica Italiana, con un allargamento dell’autonomia delle regioni a statuto ordinario, magari fino al punto di creare un sistema federale nel quale tutte le regioni sono sullo stesso piano. Al di là delle sirene leghiste (vedi la recente intervista del governatore veneto Luca Zaia sul fare fronte comune con la Sardegna), dovrebbe essere chiaro a tutti che questo scenario è, per la Sardegna, una follia, un massacro. La nostra già debole autonomia, debole per colpa della classe politica sarda del Dopoguerra, diluita in un sistema in cui tutto è sullo stesso piano, non conterebbe più nulla.

Arrivo dunque alla proposta. Considerando che il futuro Consiglio Regionale non avrà né la rappresentatività né l’autorevolezza sufficienti ad affrontare un’opera storica come la riscrittura dello Statuto; considerando inoltre che, visto quel che guadagnano, sarebbe meglio che i consiglieri regionali lavorassero per risolvere i problemi immediati dell’isola; considerando infine che gli scenari relativi al futuro assetto costituzionale della Repubblica Italiana impongono un intervento rapido e deciso del popolo sardo per riscrivere su basi solide e adeguate ai tempi la propria autonomia dall’Italia, prevedendo il proprio diritto ad autodeterminarsi nei modi e nei tempi più opportuni secondo la sua insindacabile volontà; si propone di avviare un percorso finalizzato all’elezione di una Assemblea Costituente, formata su base proporzionale e rispettosa degli interessi territoriali delle varie parti dell’isola, che abbia, come unico compito, quello di redarre il nuovo Statuto autonomistico della Sardegna, da sottoporre poi a referendum confermativo dopo un congruo periodo di riflessione nazionale.

Lasciamo trascorrere le elezioni, ma poi occupiamocene e lavoriamo sul tema Statuto, perché il tempo stringe davvero.

dp

NESSUNA AUTODETERMINAZIONE PER IL POPOLO SARDO, SENZA L’AUTODETERMINAZIONE DELLE DONNE

Emigrazione e genere, di Marta Meletti

Pubblichiamo con piacere questa riflessione e ne approfittiamo per farvi notare come il ragionamento espresso nell’articolo abbia avuto in questi giorni l’ennesima conferma fattuale: su sette candidati alla presidenza della Regione Sardegna, non c’è neanche una donna.

Cercare di scrivere una riflessione sul fenomeno dell’emigrazione da un punto di vista di genere non è semplice, ed è ancora più difficile farlo attraverso una prospettiva femminista, che implica sempre il partire da sé.

Essendo emigrata per vari anni e poi tornata, ho avuto modo di vivere sia la condizione di chi parte che quella di chi torna, e resta.  Continua la lettura di NESSUNA AUTODETERMINAZIONE PER IL POPOLO SARDO, SENZA L’AUTODETERMINAZIONE DELLE DONNE

ORISTANO: IL MERCATO È ANCORA CHIUSO, MA I CENTRI COMMERCIALI SPUNTANO COME FUNGHI

Fino agli anni Cinquanta il mercato di Oristano era nella sua piazza centrale, poi si decise che era meglio costruire un obbrobrio architettonico come il SO.TI.CO. Simbolo di una malcompresa volontà modernizzatrice che già, agli inizi del secolo, aveva portato alla distruzione della gran parte dei resti dell’architettura medievale cittadina, questa scelta racconta anche l’evoluzione di una città che ha lentamente, ma inesorabilmente, tagliato i ponti col suo circondario agricolo.

Il nuovo mercato, realizzato contemporaneamente in via Mazzini, è chiuso ormai da anni, per lavori di ristrutturazione che ormai sembrano destinati a durare ancora a lungo. Si lamentano i commercianti, relegati in una struttura più piccola, meno centrale e con meno comfort, e che riesce sempre di meno a reggere la concorrenza dei supermercati che stanno spuntando un po’ ovunque in città.

Già, perché il contraltare della svalorizzazione del mercato civico è la diffusione inaudita di

L’ingresso posteriore del mercato civico. Foto tratta dal sito del Comune di Oristano.

punti vendita della Grande Distribuzione Organizzata: è appena terminata la costruzione del nuovo centro commerciale di Pratz’e Bois, quando spunta fuori un progetto per una lottizzazione commerciale in via Vandalino Casu, verso Fenosu. Conosciamo bene il corollario che accompagna la nascita di questi spazi: contratti a termine, orari che non lasciano tempo libero ai dipendenti, aumento dell’inquinamento (tra imballaggi di plastica e necessità di trasportare le merci su gomma per lunghissimi tratti), devastazione del tessuto produttivo locale specializzato nell’agricoltura e nella produzione alimentare.

C’è una bella differenza tra il commercio fatto dalla GDO, che punta esclusivamnte al profitto, e quello dei negozi di piccola e media dimensione, a gestione locale. In questa condizione perdurante di crisi economica, pensiamo sia assurdo pretendere che i cittadini autoregolino eticamente le proprie scelte di acquisto. Le istituzioni devono sostenere i piccoli produttori, i mercati e piccoli e medi negozi e, ovviamente, i cittadini che, altrimenti, non potranno fare altro che andare a comprare dove i prezzi sono più bassi. Questa situazione è influenzata dalle azioni praticabili su più piani politici, dal livello globale fino a quello locale. Per questo pensiamo che anche le amministrazioni comunali possano lavorare in questa direzione. Certamente non lo hanno fatto le ultime due amministrazioni oristanesi, quella di centrosinistra e quella di centrodestra, la prima troppo occupata a sostenere progetti speculativi esterni come il termodinamico di San Quirico e il campo da golf di Torregrande, la seconda impantanata in un’inattività amministrativa che dura ormai da un anno e mezzo.

Sbloccare la situazione del mercato civico è un’esigenza fondamentale della città, ma serve anche altro. Serve la volontà di costruire una vera rete con il circondario, di smetterla di puntare alla creazione di posti di lavoro precari e di pensare piuttosto alla costruzione di un reale modello alternativo a quello odierno. Oristano ha il 44% di disoccupazione giovanile, non saranno 100 posti in un albergo o 15 in un nuovo supermercato a invertire la rotta di una città che va spedita verso l’autodistruzione. Serve un programma di valorizzazione e difesa del territorio, capace di costruire una ricchezza collettiva che sia in armonia con l’ambiente e con i diritti sociali.

FERMATO (PER ORA) IL PROGETTO DEL TERMODINAMICO A SAN QUIRICO

I partecipanti all’assemblea del 10 febbraio 2015 contro il termodinamico di San Quirico

La notizia è di qualche giorno fa: il progetto, della bolzanese Solar Power, per la costruzione di una centrale di produzione energetica mista termodinamico/biomasse nei terreni della borgata agricola di San Quirico, tra Oristano e Palmas Arborea, è stato bloccato dagli uffici regionali. L’azienda non era effettivamente in possesso di di tutti i terreni coinvolti nel progetto, questa la motivazione dello stop. In tanti si stanno attribuendo in questi giorni parte del merito ed effettivamente in tanti hanno contribuito: noi però crediamo fermamente che il primo e principale ringraziamento debba essere rivolto ai membri del Comitato per la Salute e la Qualità della vita di San Quirico e Tiria, che hanno lottato instancabilmente per anni contro un progetto i cui risvolti politici – e forse anche giudiziari – non sono ancora del tutto chiari. La Furia Rossa denunciò mesi fa l’esistenza di sostenitori occulti all’interno della classe politica regionale e locale, persone che sostenevano il progetto senza però esporsi direttamente. La guerra, spiegano i membri del comitato, non è ancora finita, ma quella messa a segno nei giorni scorsi potrebbe essere una vittoria decisiva.

Quasi quattro anni fa, il 10 febbraio 2015, il nostro collettivo organizzò insieme ai membri del comitato una delle primissime iniziative pubbliche contro il progetto. All’assemblea presero parte poco meno di cento persone, riempiendo la sala CPS del Liceo Classico De Castro. Slogan dell’assemblea una frase dal significato molto preciso: IL POPOLO DECIDE, IL SINDACO FIRMA. Altri tempi, forse, ma quella sala piena è la dimostrazione che anche a Oristano le persone si muovono, se si lavora bene.

No ai trofei, rispetto dei diritti*

Pubblichiamo di seguito un intervento di Rosaria Manconi, avvocatessa del nostro Collettivo nonché Presidente della Camera Penale di Oristano sulla vicenda Battisti e la spettacolarizzazione della sua cattura.

immagine del collettivo Militant (www.militant-blog.org)

Prima di fare ingresso nella struttura di massima sicurezza che lo custodirà probabilmente per il resto della sua vita abbiamo visto Cesare Battisti sfilare tra ali di folla esultante e primi ministri in divisa gongolanti per il nuovo trofeo, frutto della fortunata operazione politico/mediatica destinata alla raccolta di ulteriori consensi.
Prima ancora abbiamo visto Battisti in Bolivia, in manette, nei momenti immediatamente successivi al suo arresto, sull’aereo di Stato che lo riportava in Italia, scendere le scalette, sottoporsi alle procedure di identificazione ed infine in quel video diffuso sui media in cui, in posa rassegnata, stretto fra gli Agenti della Polizia penitenziaria, mostrava il volto della resa incondizionata e senza speranza.
Immagini che non avremmo voluto vedere se è vero che la privazione della libertà deve sempre eseguirsi in condizioni che assicurino il rispetto della dignità umana e dei diritti fondamentali, senza che si possa aggiungere umiliazione alla pena che l’individuo, in condizione di vulnerabilità per il fatto stesso di essere privato della libertà, andrà a scontare.
L’esigenza di sicurezza e la necessità di garantire il rispetto della legge e delle sentenze, infatti non può, mai, in nessun caso, fare perdere di vista il rispetto dei diritti fondamentali.
Si intravede, viceversa, nelle immagini successive alla cattura di Battisti una inutile esibizione di forza ed una evidente strumentalizzazione dell’individuo per fini meramente propagandistici e di generale politica criminale tesa quest’ultima ad appagare veri o presunti – o, peggio alimentati- bisogni collettivi di stabilità e sicurezza .
Non potendosi, dopo oltre quarant’anni dalla commissione del reato, ragionevolmente invocare la funzione rieducativa della pena, è alla pura afflizione che tende questa operazione.
Nelle espressioni del Ministro che assicura: “l’assassino marcirà in galera” ritroviamo, in tutta la sua triste verità, un concetto di carcere come luogo di espiazione della pena senza speranza, l’aspirazione alla esclusione del condannato dal consorzio umano.
Il carcere come discarica sociale, come risposta mediatica ai bisogni di protezione, come luogo in cui canalizzare le ansie collettive.
Tra qualche giorno, cessato il clamore mediatico, calerà il silenzio sul suo arresto e Cesare Battisti tornerà ad essere uno dei tanti detenuti in espiazione di una pena senza fine, senza benefici, in isolamento, in una struttura carceraria di alta sicurezza e tutti potremo nuovamente sentirci sollevati. in attesa di vivere un altro “giorno felice”.

* pubblicato anche su La Nuova Sardegna, 17 Gennaio 2019