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Il diritto alla trivialità (processo al collettivo furia rossa)

di Gian Luigi Deiana

I notiziari di oggi 12 ottobre riportano una lapidaria dichiarazione resa dal presidente della repubblica sergio mattarella in un incontro con studenti ricevuti al quirinale: “il potere inebria”; condivido al duecento per cento questa fondamentale affermazione ed è sotto la sua autorità che esprimo il mio giudizio sulla surreale vicenda del processo a carico del collettivo oristanese “furia rossa”;

tre attivisti di questo gruppo sono stati denunciati per diffamazione dall’allora questore di oristano e da altri due graduati; il fatto oggetto del processo consiste in una attribuzione sgarbata e peraltro adusata infinite volte da chicchessia, espressa in un comunicato riguardante una controversa azione di polizia; l’ espressione triviale notoriamente più ricorrente nel costume, cioè nel linguaggio abituale in casi come questi, è la parolina “sbirri”; in sardegna si presenta invece una suddivisione più aspra: quella più misurata è “pagaos sunu” e quella più triviale è “canes de istrezu”;

la prima (“pagaos sunu”) è propria di un codice informale (quello magistralmente descritto a suo tempo da antonio pigliaru) che motivava in tal modo una sorta di terreno neutro, o di zona franca, riconosciuto alle forze dell’ordine nel conflitto latente tra le comunità e lo stato: tradotto, il nemico non è l’agente di polizia, che svolge un lavoro, ma è lo stato che dispone questo ordine sociale (la proprietà, le leggi proprietarie ecc.);

la seconda (“canes de istrezu”) è propria dello slang triviale (cioè del linguaggio da trivio) che ordinariamente si avvale di metafore approssimative, a tinte forti e di uso rapido; l’espressione in sé allude spregiativamente al tipo di servizio e di corresponsione, e alla lettera non vi è dubbio che sia un’espressione brutta; il suo significato sommerso allude alla condizione per cui il gendarme che opera sotto comando non può personalmente eccepire sul carattere giusto o ingiusto del comando stesso, e si riduce a semplice esecutore ed anzi (in grazia dei parametri premiali interni alla struttura) appare incentivato a immettere anche nelle operazioni palesemente inique uno zelo inappropriato;

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QUELL’INDAGINE EPIDEMIOLOGICA A CAPO FRASCA PROMESSA MA MAI EFFETTUATA

Contano qualcosa gli amministratori locali quando si parla di interessi militari? La domanda è lecita, se si pensa a tutte le proteste, perlopiù inascoltate, dei sindaci in merito ai ritardi e ai mancati pagamenti degli indennizzi. Ma il problema è ancora più grave quando si tratta di dubbi sull’inquinamento ambientale e sui pericoli per la salute che le basi militari in Sardegna comportano. Già l’anno scorso avevamo denunciato come, dagli atti della Commissione parlamentare d’inchiesta sull’Uranio impoverito, da interrogazioni parlamentari e da alcune testimonianze raccolte dalla stampa sarda, risultasse che il poligono di Capo Frasca – al di là della propaganda militare, che lo dipinge come un luogo dove la salute delle persone non è a rischio – mostrasse parecchie criticità in termini di inquinamento e pericoli sanitari (qui). Si parlava di inquinamento del pozzo artesiano utilizzato dalla mensa del poligono, di numeri relativi all’incidenza tumorale esorbitanti con l’ex deputato di SEL, Michele Piras, che denunciava, in un’interpellanza del 2014, 23 casi di tumori fra i 70 dipendenti, civili e militari, che avevano prestato servizio a Capo Frasca tra il 1999 e il 2010.

Il comune di Arbus qualcosa aveva provato a farlo, ecco cosa.

Il 18 ottobre 2011, l’allora sindaco di Arbus Francesco Atzori, chiede all’allora assessore regionale alla salute Simona de Francisci di  accelerare al massimo l’avvio dei lavori della Commissione sulle indagini epidemiologiche relative ai cittadini residenti nell’area vasta gravata da servitù militare pertinente al Poligono di Capo Frasca, con estensione dell’indagine stessa anche sulla qualità delle acque e sulla salute animale.

Il 27 marzo 2012 Atzori reiterava la richiesta, stavolta al fine di accelerare
l’estensione delle indagini epidemiologiche e delle verifiche ambientali già attivate per il Poligono di Quirra anche al Poligono di Capo Frasca nel Comune di Arbus. La risposta della Regione arrivava il 23 aprile 2012, e si assicurava che il board scientifico dell’Istituto Superiore di Sanità che stava svolgendo l’analisi epidemiologica di Quirra avrebbe esteso la ricerca anche al poligono di Capo Frasca.

Nei fatti però pare che questa rassicurazione sia rimasta disattesa. Infatti due anni dopo, audito dalla Commissione Difesa della Camera, Atzori denunciava: “A Capo Frasca non è mai stata svolta alcuna indagine per rassicurare la popolazione sull’assenza di pericoli per la salute umana e animale. Perché non si fa? Perché?!?”.  Quando poi, nel 2015, venne pubblicata la relazione dell’Istituto Superiore di Sanità (qui), su Capo Frasca e Arbus neanche una parola.

Questa storia fa il paio con la denuncia, che facemmo nella scorsa primavera, sulla mancata attuazione della richiesta della Provincia di Oristano nel 2011 alle ASL di Oristano e di Sanluri, di verificare il tasso di incidenza delle patologie tumorali. La ASL di Sanluri non si curò nemmeno di rispondere, quella di Oristano disse chiaramente: “Senza un registro dei tumori non possiamo farlo”. Il registro dei tumori, a 7 anni di distanza, non esiste ancora.

Il punto è questo: a Capo Frasca non si può sapere ufficialmente se ci sono pericoli per la salute. Non parliamo solo delle popolazioni civili, parliamo dei dipendenti civili e militari e della fauna presente all’interno del poligono. Perché non si può sapere? Perché non si può indagare sulle denunce esposte dal maresciallo Palombo sui casi di tumore fra i colleghi di Capo Frasca? Perché non si può indagare sulle denunce esposte alla stampa dall’ex aviere di Scano Montiferro, Angelo Piras, che raccontò la morte di tumore di due suoi colleghi che, come lui, raccoglievano i materiali inerti dopo le esercitazioni a mani nude?

SARDEGNA – OKINAWA: NELL’ISOLA GIAPPONESE SI LOTTA CONTRO LE BASI (E SI RISCHIA DI VINCERE LE ELEZIONI)

In Giappone, se sei contro le basi militari americane e fai di questa battaglia il punto cardine della tua campagna elettorale, rischi di diventare governatore.  Ce lo dimostra la storia di Denny Tamaki, candidato governatore della prefettura di Okinawa alle elezioni che si terranno domenica 30 settembre.

Immagine tratta da: https://libguides.gwu.edu/okinawa/militarybases/maps

Tamaki, 59 anni, è figlio di un marine americano – che non ha mai conosciuto – e di una cameriera giapponese. È di Okinawa, isola giapponese grande circa un decimo della Sardegna, ma con quasi lo stesso numero di abitanti. Con la Sardegna condivide alcune cose: intanto sardi e abitanti di Okinawa sono fra le popolazioni più longeve al mondo, inoltre entrambe le isole svolgono il ruolo di piattaforma militare per lo stato di cui fanno parte. Come si vede dalla cartina però, la situazione di Okinawa è quasi incredibile: sembra che sia lo spazio riservato ai civili ad essere residuale. Stando a Wikipedia, Okinawa e le sue isole minori, pur costituendo appena lo 0,6% della superficie totale del Giappone ospitano il 75% delle installazioni militari presenti nel paese del Sol Levante. Le somiglianze peraltro non si esauriscono qui, Okinawa infatti è l’isola principale dell’arcipelago Ryūkyū che si costituì in regno autonomo nel XV secolo, e dopo aver oscillato tra l’influenza cinese e quella giapponese per secoli, venne definitivamente annesso al Giappone imperiale solo nel 1879, in una coincidenza cronologica straordinaria con la Sardegna.  Le isole Ryūkyū rimasero sotto la sovranità americana dalla fine della guerra fino al 1972, data in cui vennero restituite al Giappone. Tuttavia a partire dal 1945 si era sviluppato un movimento indipendentista, più o meno con in Sardegna, che però non ebbe troppo successo perché la maggior parte degli abitanti di Okinawa vedeva il ritorno all’amministrazione giapponese come uno strumento per liberarsi dell’opprimente presenza statunitense. L’indipendentismo delle isole Ryūkyū però ha di nuovo avuto momenti di nuova forza a partire dagli anni Novanta, quando la popolazione locale ha iniziato a mobilitarsi per i numerosi casi di violenza sessuale addebitabili a militari statunitensi. Nel settembre 1995 85 mila persone scesero in piazza per protestare contro un caso di stupro e il messaggio antiamericano e antimilitarista si saldò con quello antigiapponese. Nel 2007 110 mila persone protestarono contro un progetto di revisione dei libri scolastici, prodotto dal ministero dell’istruzione giapponese, che edulcorava l’ordine dato dal comando militare nipponico per il suicidio di massa della popolazione civile durante la Battaglia di Okinawa – uno dei principali scontri della Seconda Guerra Mondiale nel Pacifico. Una delle date simbolo è, casualmente, il 28 aprile, giorno in cui venne firmato il trattato di San Francisco che restituiva Okinawa al Giappone. Il governo di Tokyo ha istituito un giorno di festa nazionale, ma per molti abitanti di Okinawa quello rimane il giorno dell’umiliazione nazionale. Più di recente, nel 2016, 65 mila persone sono scese in piazza per protestare contro l’ennesimo stupro e assassinio di una donna di Okinawa da parte di militari statunitensi. Questo breve, e sicuramente impreciso, resoconto pone un problema molto interessante su come la tensione politica nelle isole Ryūkyū veda accavallarsi diverse lotte: quella per l’autodeterminazione nazionale, quella antimilitarista e quella contro il patriarcato. Una lezione che, studiata bene, potrebbe rivelarsi molto interessante per i movimenti di questo tipo che operano in Sardegna.

Una manifestazione antimilitarista a Okinawa

La situazione di Okinawa è dunque abbastanza chiara e molto simile a quella della Sardegna. Accademici, giornalisti e politici ritengono che l’isola si trovi in una condizione di colonia interna al Giappone e in molti credono che l’occupazione americana sia un elemento che rende questa situazione ancora più ineluttabile. Tornando al nostro Denny Tamaki, bisogna dire che non si tratta di un fulmine a ciel sereno. Il precedente governatore dell’isola infatti, Takeshi Onaga, vinse le elezioni del 2014 proprio concentrando la sua campagna sull’opposizione a una nuova installazione militare americana che vedeva favorevole il governo regionale di allora. Onaga è morto di cancro al pancreas il mese scorso, e ora gli abitanti delle isole Ryūkyū sono stati richiamati ai seggi e Tamaki punta a raccogliere l’eredità del suo predecessore. Su di lui pende, peraltro, lo stigma dell’essere per metà giapponese e per metà statunitense. Tamaki è stato il primo asiamericano a essere eletto nel parlamento di Tokyo e bisogna riconoscere che in Giappone non è facile appartenere a un’altra etnia, diversa da quella egemone nell’arcipelago.

A sinistra Tamaki, a destra il suo avversario, il conservatore Atsushi Sakima

Le elezioni non si annunciano facili, anche perché domenica è previsto l’arrivo di un tifone nell’isola che potrebbe complicare assai le operazioni di voto. Inoltre pare che la morte di Onaga abbia creato abbastanza scompiglio nello schieramento della sinistra, dal momento che era assai probabile una sua ricandidatura e una sua vittoria. Alla fine il testimone lo ha raccolto Tamaki. non riusciamo a trovare sondaggi sul web, ma il New York Times assicura che Tamaki e il candidato del Partito Liberal Democratico (partito di destra che da anni è al governo a Tokyo) sono spalla a spalla.

Sicuramente ci sono tantissime differenze fra la situazione di Okinawa e quella sarda, ma crediamo sia molto interessante lanciare questo spunto di riflessione e far conoscere una vicenda che dimostra come la questione dell’occupazione militare possa essere un elemento fondamentale di mobilitazione per un popolo in condizione di subalternità e di sfruttamento coloniale.

Davide Pinna

Il 2 Ottobre inizia il processo a Furia Rossa

Martedì 2 ottobre saremo impegnati al Tribunale di Oristano. Tre nostri militanti sono stati prima indagati e poi rinviati a giudizio per diffamazione, con varie aggravanti. Il fatto a cui si fa riferimento è un articolo, uscito sul blog La Furia Rossa, nel quale si esprimevano critiche politiche in merito alla conduzione da parte della polizia dello sfratto della famiglia Spanu ad Arborea, il 22 gennaio 2015 (ne avevamo già parlato qui https://bit.ly/2OQTPfX). I signori Francesco Di Ruberto, ex questore di Oristano, Vincenzo Valerioti, capo della Digos oristanese, e Andrea Brigo, agente della stessa, si sono ritenuti diffamati dalle parole presenti in quell’articolo. Nonostante il Pubblico ministero abbia chiesto per due volte l’archiviazione del fascicolo, la presunta parte offesa si è opposta e il Giudice per le indagini preliminari alla fine ha imposto alla procura di formulare un’imputazione. I signori in questione si sono anche costituiti parte civile, chiedendo un risarcimento che assomma in totale a 220 mila euro per “ingente danno morale” e per “ingente danno esistenziale e di immagine”. Non entriamo per ora nel merito della vicenda, ma lo faremo sicuramente nei prossimi tempi. Per il momento ci sembrava importante rendere pubblica questa notizia, per ringraziare chi ci ha sostenuto in questi mesi partecipando alle iniziative di autofinanziamento e per far conoscere la vicenda a chi non ne sapeva nulla.

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Martis, su 2 de ladamini, eus a essi in su Tribunale de Aristanis. Tres militantis nostus funt stèteius a primu indagaus e apustis mandaus a giuditziu po’ “diffamazione”, cun aggravantis varias. Su fatu ca est stètiu cunsiderau est un artìculu, bessiu in su blog La Furia Rossa, anca si fadiant criticas politicas a pitzu de is scebereus de sa polizia in su tempus de su disrobu de sa familla Spanu in Arborea, su 22 de gennarxu 2015. Is sennoris Francesco di Ruberto, ex cuestori de Aristanis, Vincenzo Valerioti, capu de sa Digos aristenesa, e Andrea Brigo, issu puru de sa Digos, si funt intèndius difamadus da is fueddus de cuss’artìculu. Mancai su PM appat pediu duas bortas s’archiviatzioni de su fascìculu, sa presunta parti ofèndia at fatu opositzioni e a sa fini su GIP at custrintu sa Procura a formulai una imputatzioni. Is sennoris si funt puru costituidus parti civili, pedendi unu risarcimentu de 220 mila eurus, po’ “ingenge danno morale” e po’ “ingente danno esistenziale e di immagine”. Po’ imoi no chistionaus de sa storia, ma dd’eus a fai in su tempus benidori. Pensaiaus fessit importanti fai conosci cusa nova, po’ torrai gràtzias a chini si at agiudau in custus mesis benendi a is atòbius de autofinanziamento e po’ fai conosci sa storia a chini non di scidiat nudda.

NOSU CI SEUS, E SIGHEUS A FAI SU CHI SEMPRI EUS FATU. A INNNANTIS!