ANTE TODO MUCHA CALMA (identità nazionale e coscienza di classe nel 2018 in Sardegna)

di Gian Luigi Deiana

“Ante todo, mucha calma” è il titolo di un vecchio disco di un gruppo rock spagnolo chiamato “siniestro total”; le due denominazioni, trasferite nel contesto politico che oggi stiamo vivendo e che viviamo in particolare in Sardegna, sono curiosamente interconnesse: infatti non ha senso, “non ha senso”, evocare il concetto politico di “sinistra” se non in un orizzonte di trasformazione “totale”: una sinistra che già nel suo concetto si pensa come “parziale” è una caricatura e nella sua pratica è una menzogna.

Il gruppo musicale di cui sopra era di quelli che per fare un concerto avevano bisogno di un palco della dimensione di una portaerei, per poter fare i matti fra tromboni, cavi e amplificatori (si pensi come esempio scenico al più celebre Manu Chao): tuttavia prima di iniziare dovevano contenere l’adrenalina, aver chiara la mappatura della strumentazione e sperimentare a occhi chiusi i bordi della portaerei per non rischiare di cadere nel mare della folla: di qui appunto “ante todo, mucha calma”. Ora siamo più o meno in una situazione del genere, cioè nella confusa battaglia navale di una tragicomica campagna elettorale, in un mare in cui è pressoché impossibile fare previsioni meteorologiche; tutti i capitani danno i numeri, tutti gli strumenti di navigazione sono sballati e tutti gli equipaggi sono in ammutinamento tacito o dichiarato; sulle barchette della sinistra, o sui suoi salvagente, non si sa se ridere o piangere.

In queste condizioni, se si può riuscire a salvare non dico se stessi, ma almeno un messaggio in una bottiglia, è indispensabile appunto questo: ante todo, mucha calma. Chi si confronta sulla base dell’umore del momento o sulla base di vecchie carte nautiche, alzando al voce, zittendo i compagni di sventura o cantando l’inno della vittoria, è solo un naufrago in preda a un miraggio, o a un delirio o a una fata Morgana.

Ora, la questione che si è aperta in seno alle “sinistre parziali” in Sardegna (le cosiddette diverse sensibilità) consente di suo di riportare tutta questa complicazione a due (due e solo due) fattori di partenza: l’identità nazionale e la coscienza di classe; chi non ha un pensiero di sinistra può tranquillamente fottersene della coscienza di classe, mentre chi si autoriconosce come “siniestro parzial” (sindacalismo stretto, m-l, leninismo, trotzkismo, berlinguerismo, bertinottismo, liberi e uguali, ecc.) può tranquillamente fottersene dell’identità nazionale; ma chi si pone in un orizzonte di “siniestro total” deve tenere sulla chiglia ambedue le casse del pericolante tesoro: l’identità nazionale e la coscienza di classe.

Nel fare questo non bisogna avere paura delle parole (identità, coscienza, nazione, classe, etnia, lotta, colonialismo, plusvalore, ecc.), ma bisogna imporre un uso corretto di esse rispetto ai concetti che per loro tramite si intende veicolare.

Dunque, per cominciare, l’identità nazionale è un fatto ed è in partenza un fatto positivo, in quanto fornisce all’ “io” di ciascuno la culla primaria della socialità (lingua, valori, timori ecc.); un corollario di questo teorema avverte che questo “fatto” essenzialmente antropologico è stato innumerevoli volte contraffatto da un “misfatto” essenzialmente politico, ogni qual volta una pur legittima entità politica artificiale, lo stato, ha preteso illegittimamente di partorire artificialmente la nazione; passi che una nazione partorisca nella sua storia un suo stato (su cui resta materia da discutere), ma non può passare affatto che uno stato si spacci come mamma di una nazione; passi che una cosa artificiale per quanto degna, una repubblica, si autodefinisca nell’atto costitutivo come indivisibile, ma non può passare che includa in questo atto notorio ciò che non è storicamente suo, salvo una vera coniugazione storica, morale ecc. che per esempio nella storia italiana semplicemente “non c’è” o vi è solo in parte e anche con puntelli e fondamenti delittuosi che vanno dalle menzogne alle baionette.

Se passiamo ora all’altra culla sociale che materialmente determina il farsi dell’ “io” di ciascuno, la classe, la cosa si complica ed è qui che i nazionalitari aclassisti toppano di brutto, stoppando se stessi e stoppando la maturazione della coscienza condivisa; essi qui compiono un misfatto di pari gravità di quello che compie lo stato che si proclama in quanto tale nazione: la capacità di aberrazione di un tale nazionalitarismo è tanto sconfinata quanto miserabile: se si pensa alle recenti capriole del Psdaz o ai blasfemi sbandieramenti razzisti con i poveri e incolpevoli quattro mori se ne può avere un’idea.

Tuttavia l’identità nazionale e la coscienza di classe non si situano sullo stesso piano come la nubile e il celibe, ed è illusorio presumere di poterli fidanzare e sposare così, per semplice accordo tra due posizioni politiche: infatti l’identità nazionale si pone già al livello elementare della coscienza, cioè quando io sono propriamente ancora un bambino che non sa ancora parlare, quando dormo ed elaboro nel sonno la mia vita tra me e me, quando sono con gli amici, quando devo fare i conti con la morte ecc.; ma la semplice identità nazionale non è sufficiente a mettere capo a una articolata visione della società e al senso della mia presenza dentro di essa: questa appunto, la coscienza di classe, è frutto di una consuetudine instancabile al pensiero riflesso, che non è alla portata di un infante, che sfugge all’elaborazione inconscia, che non presenta interesse per esempio di fronte al fatto esistenziale e impolitico della morte e alla significazione esistenziale in genere. La conseguenza è che l’identità nazionale, per il “siniestro total”, è una forma necessaria per la coscienza e quindi per l’azione (anche per la lotta di liberazione nazionale), ma non è una forma sufficiente e dunque necessita di una connessione chiara con la coscienza di classe e con la sua specifica modalità di azione, la lotta di classe in un orizzonte “totale”. In mancanza di questo legame ogni proposta politica è soggetta alla domanda che la storica trasmissione televisiva “Avanzi” poneva all’allora governo di Massimo D’Alema, primo ex comunista presidente del consiglio: “sì, ma a che serve?”

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POST-ILLA : questa postilla è importante, ed è anzi la ragione per la quale ho scritto questo intervento, anche se poi me la sono quasi dimenticata riga dopo riga: quando si cerca di dipanare il rapporto tra identità nazionale e coscienza di classe, è necessario evitare tante false scorciatoie e tante finte soluzioni: per questo “ante todo” ci vuole “mucha calma”; ma soprattutto, poiché si tratta di una elaborazione da svolgere “in confronto” e non nella propria singolarità nazionalitaria o nella propria singolarità comunistica o peggio ancora nella propria tentazione ermafrodita, è indispensabile mettere da parte dissapori pregressi con l’interlocutore singolo o atteggiamenti preclusivi nei confronti dell’interlocutore collettivo, fatte salve discriminanti sine qua non (per es., per me, le propensioni razziste ecc.); sapori e dissapori devono riguardare soltanto la coerenza o l’incoerenza dei propri convincimenti e delle tesi che nel confronto con altri convincimenti ne vengono fuori: sia che si tratti di Tizio sia che si tratti di Caio; di Autodeterminatzione, di Potere al Popolo ecc.; è difficile, ma si può fare.

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POST-ILLA 2: questa è una postilla importante quanto la precedente, una postilla che in realtà è una domanda: posto che la questione nazionale si autocostituisce prima e la questione di classe si costituisce poi, è ben vero che la questione nazionale non è in grado di ridurre a sé la questione di classe; ma è peraltro vero, dall’altro lato, che la questione di classe possa sussumere in sé la questione nazionale? Qui si annida il problema: in quanto la sede propria della dialettica di classe non è la nazione, colonizzata e sfruttata quanto sia, ma è lo stato; ciò induce la cronica psicologia statalistica della sinistra (delle sinistre parziali in genere, riformistiche o rivoluzionarie a piacere) a muoversi per riflessi condizionati di carattere centralistico, nella presupposizione errata che lì e solo lì, nella competizione per il potere nello stato, si dispongano con chiarezza e gerarchia compiuta “tutte” le contraddizioni; può apparire così, se non si pone la domanda su chi è che fa e gestisce la supposta gerarchia delle contraddizioni; è un pasticcio vecchio come il cucco e si ripresenta sempre come nuovo, ma perché non se ne viene mai a capo? Per il fatto che il pensiero “parziale”, sia esso integralmente statalistico o sia esso integralmente nazionalitario, è un pensiero a suo modo lobotomizzato; è brutto dirlo, ma non lo dico io, lo dice la storia e, per quanto ci riguarda, la storia della sinistra in particolare.