L’elemento che ha reso la manifestazione del 13 settembre a Capo Frasca una grande giornata di mobilitazione è stato -come abbiamo già sottolineato in questi due articoli (Capo Frasca 1; Capo Frasca 2)- soprattutto il fatto che la composizione del corteo eccedeva quella delle strutture che lo hanno organizzato. In parole povere il 13 settembre, che è stato organizzato da organizzazioni indipendentiste e comitati storici contro l’occupazione militare, ha visto scendere in piazza persone che non necessariamente appartenevano all’area di riferimento di queste strutture. Questo significa che gli organizzatori erano riusciti in poco tempo (e certo, anche con l’aiuto di alcuni eventi che hanno catalizzato l’attenzione pubblica sul tema delle basi) a costruire una mobilitazione che non era autoreferenziale, ma che parlava realmente ai cittadini sardi potenzialmente mobilitabili contro l’occupazione militare. Quest’elemento, la composizione eccedente della giornata di Capo Frasca, era quello che faceva meglio sperare per il futuro: difatti laddove nel resto d’Europa si è riusciti a costruire forti movimenti antimilitaristi (o contro le grandi opere), è stata proprio la capacità di mettere in gioco intere comunità a fare la differenza. Che in Val di Susa non siano tutti appartenenti al blocco nero o alla cospirazione anarchica internazionale (come vorrebbero quelli del Pd) è autoevidente, il fatto è che tuttavia, ciascuno con le proprie capacità e con i propri contributi, una larghissima parte della comunità si è mobilitata contro l’occupazione militare e contro lo stupro del suo territorio. È ovvio che non si potrà mobilitare mai un’intera comunità o un’intero popolo, ma questo perché appunto la società è divisa in classi e gli stronzi ci sono dappertutto.
In tutti i movimenti di popolo c’è sempre uno zoccolo duro e una componente più volatile. Lo zoccolo duro in genere è costituito dai militanti delle strutture organizzate che aderiscono a quel movimento (partiti, sindacati, universo antagonista, etc.); la componente volatile è invece generalmente composta da persone che non hanno mai avuto un rapporto duraturo e continuo con la politica e che tuttavia si sentono moralmente obbligati a mobilitarsi in vista di un obiettivo che condividono. Questa componente volatile è da un lato difficile da mantenere -va coccolata, va educata politicamente, va trasformata in forza d’urto politica e militante-, dall’altro è fondamentale per vincere la battaglia e raggiungere l’obiettivo fissato. Il movimento sardo anti-militarista fino ad oggi, nonostante una lunghissima e rispettabile tradizione, non è riuscito a fare grandi passi concreti in avanti proprio perché non riusciva ad aggregare attorno allo zoccolo duro questa componente volatile. Il 13 settembre sembrava che ci fosse riuscito.
Il 13 dicembre questa speranza si è notevolmente affievolita.
Questo perché la piazza del 13 dicembre a Cagliari ha visto manifestare solo gli appartenenti a quello zoccolo duro. C’erano gli iscritti ai partiti indipendentisti, c’erano gli appartenenti storici ai comitati, c’eravamo noi studenti e collettivi. Ma non c’erano quelle persone che c’erano a Capo Frasca. Se il 13 settembre è stata una giornata di allargamento e di rafforzamento del movimento sardo contro l’occupazione militare, il 13 dicembre è stato un momento autoreferenziale, di chiusura, perché sul palco del comizio c’erano politici che parlavano a se stessi e non si arringava nessuna folla, perché la folla non c’era.
Ai nostri Venticinque lettori non dispiacerà se abbiamo un atteggiamento così critico; proprio il fatto di essere un blog così poco conosciuto ci permette di mettere da parte il trionfalismo e l’ottimismo, per fare analisi approfondite che ci consentano magari di non commettere certi errori. E non si offendano gli organizzatori se leggeranno quanto scritto sopra e sotto, dato che le critiche sono mosse con umiltà estrema e non perché riteniamo di poter dare lezioni a qualcuno, ma perché siamo convinti che solo il ragionamento pubblico possa permettere a un movimento di fare quei passi in avanti necessari al raggiungimento dell’obiettivo prefisso.
Io credo che abbia influito pesantemente il fatto che anche il 13 dicembre non sia stato preceduto da momenti di ragionamento pubblico. Fu già così per il 13 settembre, e noi scrivemmo numerosi articoli chiedendo agli organizzatori di convocare un’assemblea pubblica prima del corteo senza ricevere alcuna risposta. A settembre però intervennero alcuni elementi che sopperirono a questa mancanza organizzativa: l’incendio nella base di Capo Frasca, il mombardamento dei nuraghi a Quirra, la campagna stampa lanciata dall’Unione Sarda, etc. A dicembre tutto questo non c’è stato. Il corteo è stato lanciato dall’assemblea pubblica del 4 ottobre a Santa Giusta: due mesi e nove giorni di distanza. In tutto questo periodo nessuno ha potuto cercare di dare il proprio contributo alla buona riuscita della manifestazione. A tutto hanno pensato gli organizzatori, ma saremmo stati ben lieti di alleviare il peso che gravava sulle loro spalle, facendo le nostre proposte in assemblee da cui sarebbero poi uscite le determinazioni finali.
Invece abbiamo ricevuto la pappetta pronta e la questione era molto semplice: o ci stai o non ci stai. Così abbiamo dovuto accettare che il corteo si svolgesse il sabato mattina, impedendo a migliaia di lavoratori di partecipare; così abbiamo dovuto accettare che si cercasse un confronto con le istituzioni che alcune realtà politiche e alcune persone potrebbero ritenere inutile; così abbiamo dovuto accettare un percorso che invece di passare accanto ai luoghi simbolo dell’occupazione militare a Cagliari, andava a terminare di fronte a un palazzo della regione vuoto e deserto. E l’abbiamo fatto, per “amor di patria” in un certo senso. Ma a questo gioco ci sono state solo 1500 persone, mentre a Capo Frasca eravamo quasi dieci volte tanto.
Che conclusioni è possibile trarre da questa rapida, e forse frettolosa, analisi? Ribadisco che non spetta a noi dare lezioni a nessuno, le nostre critiche possono essere condivise o meno, ma non è quello il punto che quest’articolo vuole mettere in evidenza. Il punto principale è che la prossima data di mobilitazione, se ci sarà, dev’essere costruita con un dibattito pubblico, ampio e partecipato. In caso contrario si andrà verso l’oblìo e l’ennesimo fallimento di una speranza di riscatto in Sardegna.
D.P.