È un mondo difficile, cantava quello, e non aveva tutti i torti. La massima attenzione, in questi
giorni, è riservata alle grandi questioni che agitano l’Europa dei capi di governo. Coronabond sì, coronabond no, i petali della margherita verranno computati per altri quattordici giorni prima di arrivare ad una decisione e come segnalano gli osservatori tutto dipende dalla virulenza della pandemia nel Nord Europa: se sarà una tragedia, come lo è in quella mediterranea, allora ci sarà spazio per una reazione comune, altrimenti ognuno per la sua strada. È un mondo difficile, in fondo, e come in ogni film di Bud Spencer e Terence Hill che si rispetti, arriva sempre quel momento in cui uno dice all’altro: ognuno per la sua strada. Ma, d’altra parte, a noi del Coronabond quanto interessa davvero?
Le questioni macroeconomiche influenzano la nostra vita, questo è innegabile, ma guardando al futuro – purtroppo privi di palla di vetro – l’impressione è che il Pil prima o poi riprenderà a crescere e in tanti sono pronti a giurare che il rimbalzo delle borse arriverà. Ma il Pil cosa è, se non una più raffinata trasposizione econometrica di quello che il pollo di Trilussa ci aveva già insegnato? Se io e te siamo in una nazione, e abbiamo due pennuti in tutto, calcolandone la media risulterà sempre un pollo a testa. Ma magari io me ne mangio uno a pranzo e uno a cena, mentre tu ti arrangi. E così, coi coronabond potrebbe esserci margine per fare più debito pubblico, ma a meno di improbabili feticismi del deficit in sé e per sé, è chiaro che alle persone interessi qual è l’impiego che si fa delle somme ulteriori a disposizione.
Oggi del problema se ne è accorta anche Repubblica, che pubblica un’intervista al ministro per il Sud Giuseppe Provenzano: «Il reddito di cittadinanza va esteso» si legge nel virgolettato. E non è un caso che la proposta non arrivi dal ministro dell’Economia, ma da quello deputato alla questione meridionale: la tragedia del lockdown, parallela alla crisi sanitaria, si innesta su una pianta già da tempo malcresciuta, storta e poco sana. Quella dei rapporti coloniali interni alla Repubblica Italiana.
I servizi di intelligence, segnala sempre Repubblica, hanno già depositato sulle scrivanie del governo un rapporto che prende in considerazione il rischio di rivolte sociali spontanee nel meridione d’Italia. Il rischio c’è, forse è pure un’opportunità per cambiare lo stato delle cose, ma in questi giorni le istituzioni politiche hanno lavorato per creare un clima e un quadro giuridico che consenta il contenimento poliziesco della tensione sociale. In fondo non sembra che ci voglia la licenza dei servizi segreti, quegli stessi servizi che tra gennaio e febbraio forse avrebbero potuto consigliare un po’ meglio il governo italiano sui rischi dell’epidemia, per capire che in città come Napoli, Palermo o Bari la pentola è sempre più vicina all’esplosione. E purtroppo non serve il dottorato in scienza politica per capire che la sinistra non è assolutamente in grado, in questo momento, di avere un ruolo determinante in questa eventuale esplosione.
La Sardegna, probabilmente, riuscirà a reggere il colpo più a lungo, perché i tessuti sociali rurali sono impregnati di meccanismi di solidarietà informale, legati a rapporti di vicinato o di parentela. Nei centri urbani dell’isola, Sassari e soprattutto Cagliari in testa, però la questione potrebbe esplodere da un momento all’altro: quanta gente, nei quartieri popolari del capoluogo, vive alla giornata con attività di commercio ambulante, per esempio? Quanta gente vive di piccola illegalità? Per queste persone, riempire il frigo al momento è un problema immediato. Molto più urgente della necessità di tutelarsi dal contagio. D’altra parte, è un meccanismo ben noto a chi osserva le modalità del conflitto salute-lavoro. Meglio lo stipendio della raffineria in tasca ogni mese, o un possibile tumore collocato in un punto del tempo indefinito? La risposta è scontata. L’esplosione, però, si avvicina anche nelle aree rurali e nei piccoli centri: i meccanismi di solidarietà informale sono già stati portati ad un alto livello di tensione dalla crisi economica del 2008, il lockdown potrebbe farli arrivare al punto di rottura. Con La Furia Rossa lo dicevamo anni fa, e ci è costato anche qualche pena giudiziaria: la crisi economica innescò un’emergenza negli ambiti rurali sardi che non poteva essere affrontata con i meccanismi di risposta delle realtà politiche urbane. Le piccole imprese e i tanti lavoratori che perderanno ogni forma di entrata economica nelle prossime settimane sono reali, e se non si agisce immediatamente per fornirgli forme di liquidità e per bloccare almeno da qui alla fine dell’anno le rate degli strumenti creditizi, ci troveremo di fronte a una nuova ondata di esecuzioni forzose.
In alcune proposte sembra che ci si concentri troppo su un punto di vista lavorista: il reddito di quarantena, però, non è un sostituto della cassintegrazione in deroga. In realtà, in un ottica di compensazione delle voci di bilancio, un reddito universale ovviamente sostituisce gli ammortizzatori sociali. Ma siccome pare che il discorso comune sia ben lontano dall’ideda di reddito universale, è chiaro che al momento si debba spendere qualche parola anche su fornire le garanzie a chi garantito non lo è.
La più scontata delle critiche è anche la più facile da smontare: da dove si prendono i soldi? Non può esserci solo ricorso al debito pubblico, l’altro grande passaggio da fare è una revisione della progressività fiscale. In una società sempre più diseguale, come le nostre, prima di arrivare a colpire i ceti medio-alti, si possono ricavare risorse abbastanza grosse dalla tassazione delle grandissime imprese e delle varie forme di rendita finanziaria. Arriverà anche il tempo di una redistribuzione della ricchezza fra le persone, ma i margini di manovra, dati dal pozzo senza fondo degli enormi patrimoni che si riversano nei dividendi azionari, consentono, se lo si vuole, di posticiparlo.
La proposta c’è già insomma, e forse stavolta è il caso di interrogarsi su come trasformarla in protesta, in una inversione del classico meccanismo di riflessione dei movimenti. Perché sul reddito universale si ragiona da anni, e ora siamo arrivati inaspettatamente al momento in cui la realtà delle cose ci impone di trasformare quei ragionamenti in pratica politica. Se non lo facciamo, la protesta esploderà lo stesso prima o poi. Ma probabilmente ci ritroveremo a fare gli spettatori.
dp