NON DIRE NO!

Quando si parla dei mali che affliggono la Sardegna, moltissime persone dicono che la causa principale va cercata nella mentalità dei sardi. A seconda della posizione sostenuta da chi parla, questa mentalità assume caratteristiche diverse: una volta siamo troppo chiusi, un’altra troppo servili; una volta siamo invidiosi, una volta troppo solidali. Il nostro parere è che la mentalità collettiva di un popolo sia un concetto molto debole e che i sentimenti sono ciò che accomuna l’uomo al di là di confini e bandiere. Non è che i sardi sono invidiosi, o testardi, o servili o incapaci di fare gruppo (o meglio, non è che lo sono più o meno dei corsi, dei thailandesi, dei norvegesi o dei samoani): è che abitano in una terra soggetta a sfruttamento di tipo coloniale da parte di vari paesi europei e di varie aziende che operano soprattutto nell’ambito dell’energia o della tecnologia militare.

La nuova frontiera Sardegna,_Italydello sfruttamento coloniale è la speculazione energetica, che si porta dietro tante belle cose come il land grabbing e l’inquinamento. Cosa sia qust’ultimo non c’è bisogno di spiegarlo, forse invece a qualcuno può servire una rapida definizione del primo termine: letteralmente “accaparramento della terra”, si tratta di una pratica portata avanti da aziende multinazionali perlopiù nei Paesi del su del mondo, che vede l’affitto di terreni agricoli e la loro sottrazione alle popolazioni locali allo scopo di insediarvi monocolture finalizzata alla produzione alimentare (ovviamente destinata all’occidente) o di biocombustibili. Anche la Sardegna subisce queste pratiche, e ne sono un esempio la volontà di impiantare la monocultura del cardo in Cab’e Susu e della canna comune (Arundo donax) in Cab’e Josso per la produzione di biocombustibili. Si tratta di pratiche che ci accomunano ai Paesi del Sud del mondo, per chi avesse ancora dubbi sulla nostra condizione di colonia.

Ma torniamo alla questione della mentalità. Ora il leitmotiv è che i sardi dicano troppi no ed è con questo argomento che cercheranno di convincerti che il progetto ultratecnologico e moderno proposto dall’azienda con sede in Svizzera o a Taipei sia quello che ci serve per uscire dalla crisi. A parte che bisogna specificare cosa si intenda per crisi: se parliamo di quella globale che ha investito il capitalismo occidentale, l’unica soluzione (l’unica, s’intende, accettabile per chi vuole restare in un’economia capitalista) sta nell’abbandonare l’austerity; se parliamo delle condizioni secolari di arretratezza e depressione economica della Sardegna, l’unica soluzione sta nel liberarsi dai vincoli dello sfruttamento coloniale. La questione inoltre è che la storia della Sardegna dimostra che piuttosto sono stati detti troppi sì. Quanti sì in Costa Smeralda? quanti sì nei distretti industriali di Portovesme, Porto Torres e Ottana? e il risultato di questi sì?  Cementificazione di chilometri e chilometri di litorale in cambio di un sistema economico che lascia solo le briciole alle popolazioni locali, costruzione di cattedrali nel deserto che hanno solo inquinato e distrutto il sistema agro-pastorale e oggi producono solo disoccupati e cassintegrati. Qualcuno ha ancora il coraggio di dire che i sardi dicono troppi no? Con tutti i sì che abbiamo detto, meglio correre il rischio di dire qualche no di troppo, piuttosto che continuare a svendere la nostra terra.