IL MOVIMENTO SARDO CONTRO LE BASI E L’ORGANIZZAZIONE DEI MOVIMENTI DI MASSA

Esistono movimenti sociali spontanei? E laddove esistessero, hanno delle prospettive di raggiungimento dei loro obiettivi se non si organizzano in maniera strutturata? Questa domanda ha segnato profondamente il dibattito all’interno della Sinistra nel Novecento, creando spaccature talvolta incolmabili e che ancora oggi minano l’unità dei movimenti di emancipazione degli oppressi.

La risposta di sicuro non è alla portata della Furia Rossa, ma proviamo a dare un nostro contributo in una fase storica in cui in Sardegna sta sorgendo un movimento importante e di massa. Durante l’assemblea del 31 agosto, “Dalle lotte dei territori alla lotta collettiva per una Sardegna migliore”, Enrico Lobina e Edoardo Lai nei loro interventi hanno posto la questione dell‘organizzazione delle forze conflittuali sarde. Si tratta indubbiamente di uno dei punti fondamentali per determinare il successo o meno del movimento che vediamo nascere in questi mesi.

Se anche volessimo dividere le forze in campo fra spontaneisti e strutturalisti*, dovremmo fin da subito precisare che non esistono spontaneisti ortodossi o puri. Esistono, è vero, dei comportamenti collettivi spontanei ed in genere si possono ritrovare negli atteggiamenti di una folla: un linciaggio, una carica contro la polizia, il panico che porta alla fuga incontrollata, etc… tuttavia si tratta di momenti, di situazioni che rispondono alle precise dinamiche comportamentali che si sviluppano appunto in presenza di una folla, e che in genere hanno una durata breve e non comportano alcun tipo di decisione sul medio o lungo periodo. Insomma, si tratta di azioni in cui l’istinto prevale sul raziocinio e che possono avere un valore politico che però non è autosufficiente. Questo significa che nel caso questi fenomeni non siano supportati in un arco di tempo relativamente breve da un adeguato processo decisionale che le indirizzi verso un obiettivo, scoppiano come una bolla di sapone. E anche il più ortodosso degli spontaneisti è costretto a riconoscere che questo è vero.

Lasciati da parte questi fenomeni, che abbiamo definito come dotati di un valore politico intrinseco ma non autosufficiente, passiamo all’analisi di quelli con un valore politico autosufficiente; se prima abbiamo parlato di dinamiche comportamentali, sembra il caso di concentrarci ora sui processi decisionali. Io credo che in questo caso chi sostiene delle posizioni spontaneiste lo faccia il più delle volte in mala fede. Mi spiego meglio, chi diffonde la teoria della necessità di un movimento sociale spontaneo in realtà spesso nasconde dietro la maschera dell’utopia, ben più concreti interessi materiali ad egemonizzare quel movimento. Un movimento sociale non strutturato è infatti facile preda di chi intende dare a quel movimento la direzione che più gli fa comodo. Non è un caso che generalmente sono i leader dei movimenti non radicali, quelli più reazionari, a fare l’apologia dello spontaneismo. Ed in genere questo spontaneismo di facciata comporta che un leader egemonizzi ogni processo decisionale all’interno del movimento in questione. I movimenti sociali realmente radicali o progressisti si sono sempre organizzati avendo come pilastro fondamentale il conferire la potestà decisionale a un’assemblea; dalla rivoluzione francese fino a quella di Ottobre, dai movimenti del ’68 a quelli del ’77, dal mondo dei No Global degli anni Novanta fino al movimento #Occupy di quelli Duemila, e impossibile citare un caso in cui non ci sia stata un qualche tipo di organo decisionale collettivo. Questi organi poi sono stati dei tipi più vari, dal centralismo democratico alla democrazia diretta e di base autorganizzata, ma qualcosa c’è sempre stato e questo è stato sempre un elemento di forza che ha consentito a questi movimenti, anche quando non hanno vinto, di porre una seria sfida nei confronti del sistema contro cui combattevano. Se quest’organizzazione manca, il flop è immancabile e vedi infatti la fine che hanno fatto i minacciosi forconi, che erano minacciosi solo per il TG1. Credo che dunque non si possa parlare di contrapposizione fra la scuola degli spontaneisti e quella degli strutturalisti, quanto piuttosto di un dibattito su quali forme di organizzazione scegliere per dare forza a un movimento sociale.

E in questo momento in Sardegna il problema dell’organizzazione si pone eccome, perché siamo di fronte a un movimento di massa che o si dà una struttura o va verso un futuro molto triste: quello dell’egemonizzazione da parte di pochi o quello della dissoluzione. Riguardo la giornata di Capo Frasca credo che vadano fatte almeno due considerazioni. La prima è che le persone presenti eccedevano l’area politica e culturale degli organizzatori della giornata; questo implica che, pur dando agli organizzatori tutti i meriti che spettano loro, è necessario che il percorso venga portato avanti in maniera tale da includere nel processo decisionale quest’eccedenza. La seconda, ed è il rovescio della medaglia della prima, è che bisogna stabilire dei limiti entro i quali quest’eccedenza può essere considerata; in altre parole bisogna scegliere una piattaforma che stabilisca chi può stare dentro questa lotta e chi non può, per esempio stabilendo che l’obiettivo del movimento contro le servitù è la loro eliminazione totale da territorio sardo, la bonifica dei territori colpiti e la riconversione. Quest’opera di delimitazione dei confini culturali, ideologici e politici del movimento può ritenersi legittima solo se viene messa in atto da un’assemblea ampia e rappresentativa di tutte le realtà presenti a Capo Frasca il 13 settembre. Quello che proponiamo è un percorso più lungo e più complesso, ma Roma non fu costruita in un giorno. Dovremo limare alcune divergenze, è vero, ma in realtà l’apertura di un percorso pubblico e trasparente metterà in salvo questo movimento da eventuali giochini egemonici (vedi Mauro Pili, o il Partito Democratico) e al contempo stabilirà dei limiti chiari alla partecipazione, per cui sarà molto più difficile infiltrarsi con posizioni di facciata o di compromesso. Va detto in ogni caso che una tale assemblea sarebbe pienamente legittimata solo nel caso in cui venisse convocata dagli organizzatori della giornata del 13 settembre; se la convocasse una forza diversa darebbe l’impressione di voler sovradeterminare un percorso che ha comunque avuto inizio dalle precisa scelte politiche compiute da alcune realtà organizzate e che portano avanti la battaglia contro le servitù da anni. Chiediamo quindi espressamente che le forze organizzatrici e animatrici del 13 settembre convochino al più presto un’assemblea pubblica allo scopo di decidere i futuri passi del movimento contro le basi, sia in termini organizzativi che di mobilitazione.

(D.P.)collettivo furia rossa

* personalmente mi piange il cuore ad usare una parola orribile come organizzativista -che pure esiste- quindi accontentatevi di strutturalista nell’accezione di persona che ritiene necessaria una struttura organizzata negli ambiti di decisione collettiva.