Sul tema dell’indipendentismo i dati a nostra disposizione sono incoraggianti, ma in apparenza contradditori: una percentuale superiore al 20% dei sardi, variabile a seconda delle liste che si decide di includere nel conteggio, ha votato per partiti cosiddetti etnoregionalisti alle scorse elezioni regionali; i dati di una ricerca dell’università di Cagliari e di quella di Edimburgo dicono che il 41% dei sardi vorrebbe intraprendere un percorso di autodeterminazione con l’obiettivo dell’indipendenza. C’è uno scostamento evidente, fra il numero di indipendentisti in Sardegna e quelli che decidono di tramutare il loro pensiero in una scelta elettorale. Certo, se si pensa che fino a trent’anni fa l’indipendentismo era poco più che un esercizio intellettuale, è immediatamente intuibile quanti passi in avanti siano stati fatti. Cosa può aver determinato questi passi in avanti? Sul piano interno credo abbia un ruolo rilevante la crisi del Partito Sardo d’Azione nel ’94, dopo le due legislature Melis in Regione. Il Psd’Az, da sempre interessato a presentarsi come l’unico rappresentante legittimo dell’etnoregionalismo sardo (e in effetti per gran parte della sua storia è stato l’unico), non riuscì a soddisfare le aspettative del vento sardista degli anni Ottanta e si ritrovò a pagare il prezzo di un’alleanza tattica fallimentare col PCI; questo probabilmente spinse numerosi intellettuali, politici ed elettori, a cercare di elaborare un pensiero sulla Sardegna al di fuori degli schemi tradizionali del sardismo, ormai superato dalle condizioni storiche. Sul piano esterno certamente ha una gran rilevanza la crisi di legittimità di tutti i partiti italiani a partire da Tangentopoli, crisi fino ad ora mai interrotta, così come la definitiva certezza, scientifica, del fallimento delle politiche dell’Autonomia dal ’48 ad oggi. La situazione in cui oggi ci troviamo è dunque frutto di alcuni fattori, interni ed esterni, positivi in relazione alla crescita del pensiero indipendentista.
La Sardegna si è insomma ritrovata al centro di un revival etnico che tuttavia, in maniera paradossale, ha riguardato tutti i campi della vita tranne quello della politica. Difatti a queste condizioni favorevoli si oppone la dura realtà dello scarso consenso raggiunto dai partiti etnoregionalisti negli ultimi vent’anni. A questo punto la questione è: cosa ha determinato questo mancato successo? Non pretendo di dare a quest’argomentazione validità scientifica, ma l’ipotesi di fondo è la seguente: se i fattori esterni al sistema partitico sono tutti favorevoli alla crescita dell’etnoregionalismo in Sardegna, allora le cause di questa mancata crescita sono da cercarsi all’interno sistema partitico etnoregionalista stesso. Il lavoro di raccolta di dati a sostegno e contro questa tesi è ancora corso, e spero di poterne rendere conto entro qualche mese; per ora approfitto della praticità del mezzo “giornalistico” e cerco di sviluppare il ragionamento, come se la tesi fosse già stata dimostrata.
Qual è stato dunque il principale problema interno all’etnoregionalismo sardo? La frammentazione? Non proprio. La presenza di numerosi partiti è indice di vivacità ed è addirittura auspicabile agli esordi di un sistema partitico (consideriamo che il primo vero concorrente del Psd’Az fu Sardigna Natzione, quindi possiamo dire che il sistema dei partiti etnoregionalisti sardi nasca negli annni Novanta). Più che di frammentazione, io parlerei di confusione: la questione è che la maggior parte dei partiti etnoregionalisti non si è mai collocata con chiarezza sul continuum sinistra-destra. Il sistema partitico etnoregionalista sardo è stato per lungo tempo monodimensionale, forse anche a causa della convinzione di molti che, per andare verso l’indipendenza, sia necessario cercare di far stare tutti i sardi nello stesso contenitore politico. Eppure gli esempi tratti da altre regioni nazione (termine che indica con precisione la condizione di quei popoli che hanno avviato un processo di costruzione nazionale senza completare quello di costruzione statale) dimostrano come i partiti etnoregionalisti in genere si rafforzino nel momento in cui sovrappongono la frattura etnica alle fratture socioeconomiche, mentre si indeboliscono quando queste fratture si intersecano. Partendo da un assunto marxiano e riconoscendo che la storia è la storia della lotta di classe, diventa evidente che il nazionalismo da solo, almeno nell’Europa occidentale, sia più debole delle dinamiche messe in moto dalle contraddizioni economiche e sociali. Tutto ciò va detto su un piano di analisi politica, perché non conta che il partito etnoregionalista si collochi dalla parte di una classe sociale o di un’altra, ciò che rileva è che faccia questa scelta. Le periferie celtiche della Gran Bretagna hanno organizzato la propria mobilitazione etnica in partiti di sinistra: il Plaid Cymru gallese e lo Scottish National Party sono partiti socialdemocratici che hanno costruito il proprio successo sulla battaglia contro la Poll Tax della Tatcher, proprio nel momento in cui i laburisti iniziavano a spostarsi verso il centro dell’arco costituzionale britannico, e non esiste alcun fenomeno etnoregionalista rilevante di destra; in Catalogna e nei Paesi Baschi esiste un sistema partitico etnoregionalista che si sviluppa anche sulla frattura socioeconomica, con partiti di sinistra e partiti di destra.
Dunque sembra ragionevole affermare che i partiti etnoregionalisti sardi pagano, in molti casi, la scelta di non aver mai scelto. Peraltro partendo da assunti programmatici di base in genere di sinistra.
Questo cosa significa? Quale strada dovrebbe seguire il mondo dell’etnoregionalismo sardo, e soprattutto quello dell’indipendentismo? Le argomentazioni presentate sopra mi spingono a dire che è necessario fare una scelta di campo, collocarsi a sinistra o a destra della frattura socioeconomica. Per fare ciò è necessario allargare le proprie vedute, inserendo all’interno dei popri programmi considerazioni su questioni macroeconomiche o di politica del lavoro. Non è un’operazione facile, perché le teorizzazioni fatte fino ad ora devono essere adattate a un mondo socioeconomico complesso come quello sardo, dove è impossibile parlare di proletariato e di borghesia tout court. Come farlo? Per rispondere a questa domanda serve un ragionamento molto complesso, anche perché va ricordato e riconosciuto che alcune forze indipendentiste hanno fatto questa scelta di campo fin dall’inizio della loro esistenza. La questione si sposta dunque sul piano dell’organizzazione e credo che il ragionamento in quest’ambito debba svilupparsi considerando alcuni punti: in primo luogo la forma per eccellenza della competizione politica è ancora il partito, ma ha subito numerose mutazioni negli ultimi anni e non può essere staccato nettamente dalla società civile, anzi dev’esservi avvicinato tramtie associazionismo, sindacati, collettivi, intellettuali, etc; in secondo luogo è necessario trovare un contenitore politico che sia in grado di raccogliere tutte le categorie che subiscono in qualche maniera l’oppressione capitalista nell’Isola, tenendo conto del fatto che le dinamiche di aggregazione e di partecipazione dell’artigiano sono ben diverse da quelle dell’operaio, che a loro volta sono diverse da quelle del precario, etc.
Dunque ben venga il dibattito su Indipendentismo e Sinistra promosso da A manca pro s’indipendentzia e speriamo che sia partecipato e animato, e che possa giungere alfine a una sintesi che ci permetta di costruire su solide basi il futuro della sinistra in Sardegna.
D.P.