NESSUNA AUTODETERMINAZIONE PER IL POPOLO SARDO, SENZA L’AUTODETERMINAZIONE DELLE DONNE

Emigrazione e genere, di Marta Meletti

Pubblichiamo con piacere questa riflessione e ne approfittiamo per farvi notare come il ragionamento espresso nell’articolo abbia avuto in questi giorni l’ennesima conferma fattuale: su sette candidati alla presidenza della Regione Sardegna, non c’è neanche una donna.

Cercare di scrivere una riflessione sul fenomeno dell’emigrazione da un punto di vista di genere non è semplice, ed è ancora più difficile farlo attraverso una prospettiva femminista, che implica sempre il partire da sé.

Essendo emigrata per vari anni e poi tornata, ho avuto modo di vivere sia la condizione di chi parte che quella di chi torna, e resta. 

Penso sia importante sottolineare che le ragioni per cui una donna decide di emigrare sono in parte diverse rispetto a quelle maschili. Spesso una donna parte per uscire da un ambiente in cui si sente giudicata, osservata, imbrigliata in ruoli di genere che le sono imposti dalla società, dalla famiglia o all’interno delle proprie relazioni.

Emigriamo per liberarci dalle pressioni estetiche che sentiamo addosso, dal dover corrispondere ad un ideale di bellezza soffocante che ci vuole magre, carine e curate. Speriamo di trovare realtà in cui altri corpi sono accettati e in cui non sentirci sbagliate per essere nate in un corpo non conforme alla norma sociale.

Nella mia città, la prima (e spesso ultima) classificazione che viene fatta di una ragazza è basata sul binomio “è carina/non è carina”, che ti inserisce senza possibilità di redenzione nella categoria socialmente accettata o meno. Non è importante andare oltre, conoscersi, capirsi: l’apparenza è sufficiente a determinare che tipo di persona sei. Le conseguenze spesso sono insicurezza a vita, rabbia verso il mondo, odio per il proprio corpo.

Emigriamo perché vogliamo vivere la nostra sessualità liberamente. Perché non vogliamo essere giudicate se abbiamo una vita sessuale, se vogliamo avere più partner o fare diverse esperienze sessuali.

Se poi nasciamo con la sfortuna di non essere attratte solamente dall’uomo etero cisgender, poi, le cose diventano ancora e ancora più complicate.

Emigriamo perché se proviamo a creare degli spazi di resistenza, di controcultura, di socializzazione diversi da quelli normati e accettati, ci scontriamo col fatto che questi spazi, anche se alternativi, rimangono una prerogativa maschile.

Lo spazio politico è ancora prettamente maschile, ugualmente quello più culturale e sociale, come ad esempio quello musicale.

Attenzione: non voglio banalizzare il discorso dicendo che “in Sardegna fa tutto schifo mentre fuori si sta benissimo e la gente è avanti”, perché non è così. Il patriarcato non ha confini ed è strutturato e normalizzato nelle altre culture così come in quella sarda.

Quando parti, l’appartenere alla categoria donna ti costringe a mettere in atto dei comportamenti che un uomo non ha bisogno di mettere in atto. Devi stare attenta al quartiere dove vai a vivere, perché è pericoloso (e dunque devi spendere più soldi per andare a vivere nei quartieri “tranquilli”). Devi stare attenta a con chi vai a vivere, perché è pericoloso. Devi stare attenta a chi ti parla per strada, perché è pericoloso e potrebbe approfittarsi di te. E se non lo fai stai in qualche modo sfidando la sorte, te la stai “andando a cercare”. La retorica patriarcale è sempre presente, ed è talmente interiorizzata che non ci rendiamo conto di quanto influenzi anche i piccoli aspetti della quotidianità.

Abbiamo semplicemente la possibilità, emigrando, di raggiungere spazi più grandi, diversi da quello da cui veniamo e in cui ci sentiamo controllate e giudicate. Abbiamo più possibilità trovare persone che la pensano come noi e condividono la nostra stessa lotta, o che la portano avanti da anni, sentirci meno sole e costruire qualcosa insieme con maggiore forza.

Emigriamo perché il patriarcato e la violenza di genere sono strutturali e insiti in tutti gli aspetti più profondi della cultura sarda.

E questo ritengo sia un punto fondamentale da riconoscere e da porre come imprescindibile in qualunque movimento di autodeterminazione del popolo sardo. L’autodeterminazione della Sardegna non può avvenire senza la possibilità delle donne di autodeterminarsi, altrimenti sarà un movimento parziale e rivolto solo ad una parte, quella maschile, che come è sempre stato gestisce il potere e a sua volta opprime.

Penso che non ci si debba nascondere dietro il colonialismo italiano o il sistema socio-economico importato, incolpandoli, tra i tanti mali, di aver portato anche il patriarcato. In questo modo si sta solamente deresponsabilizzando un popolo, che invece deve prendere coscienza della propria struttura sociale e del fatto che l’oppressione patriarcale in Sardegna è insita e strutturata come in tantissimi altri posti. E la creazione di falsi miti come quello del presunto sistema matriarcale, o matrilineare, non fa altro che giustificare e deresponsabilizzare, e non mette i sardi e le sarde di fronte alle proprie responsabilità e alla necessità di un cambiamento profondo.

E se emigriamo per tutti i motivi che ho elencato, e molti di più, è anche vero che restiamo (o vogliamo tornare) per cercare di porre le basi per un cambiamento, perché nessuna lotta come quella che portiamo avanti nella e per la nostra terra ci entusiasma, ci coinvolge, ci delude, ci trasporta.

Questo cambiamento, però, non può prescindere dal riconoscimento da parte di tutte e tutti i compagni e le compagne dell’autodeterminazione di genere come processo funzionale e indispensabile all’autodeterminazione del popolo sardo.